L’idea che un segno, proprio perché imperfetto, nel rappresentare l’oggetto ne sottolinei l’assenza si dissolve improvvisamente di fronte alla perfezione di simulacri in grado di attualizzare il desiderio di ritrovare ciò che è stato annientato dalla furia di una natura ben lontana dall’esser prodiga, e di risolvere, sul piano della finzione, la contraddizione sempre viva nell’uomo tra il piacere dell’abitare e la paura dell’assenza (cfr. Abruzzese, 1987, p. 34).
La futuristica nube ardente, che pietrificò nel mito la città fondata da Eracle, fa rivivere sulla pelle dei visitatori, accarezzandola inquietantemente, la torsione di significato subita dalla stessa categoria estetica del sublime, non più operante come smarrimento di fronte a una natura matrigna, che sovrasta l’uomo e può annientarlo, ma come angoscioso scoramento, suscitato dalla limitatezza dell’immaginario individuale di fronte all’infinità di un immaginario tecnologico (cfr. Costa, passim) snodato attraverso la riproduzione perfetta di passato e presente e la prefigurazione terribile dell’avvenire. Pur generando angoscia, tale smisurata grandezza fa risplendere, però, la potenza dell’umanità in quanto specie in possesso di quella forma di estrema razionalità, capace sì di adombrare distopici progetti, ma anche di realizzare ogni sogno, compreso quello di ricostituire l’infranto e di riproporre epoche trascorse, nel disperato tentativo di riscattare dalla transitorietà.
Le immagini digitali, prodotte dal fenomenizzarsi di algoritmi in formato binario nell’interazione con gli utenti, rianimano magicamente gli alberi rinsecchiti o ricolorano la sontuosa antichità, dimostrando come il processo di tecnologizzazione avanzi al “ritmo di continue pulsazioni capaci di volta in volta di assorbire frammenti o cellule o sostanze del passato e rielaborarle, metabolizzarle nel presente” (Abruzzese, 1988, p. 7). La virtualizzazione, non derealizzazione, ma movimento del farsi altro, sferra un accanito combattimento contro la caducità, la sofferenza, la consunzione e conduce verso regioni ontologiche avulse dai pericoli comuni. L’arte, sempre al limite tra il semplice linguaggio espressivo, la tecnica e la funzione sociale, interroga questa tendenza, tentando esasperatamente di sfuggire all’hic et nunc e ricercando affannosamente l’esaltazione dei sensi: nel suo svincolare le emozioni da una contingenza particolare, nel conferire loro una portata collettiva, nel “suo volteggiare, ora blocca, ora sprigiona l’energia affettiva che […] fa vincere il caos. In un’estrema spirale, indicando così il motore della virtualizzazione, l’arte problematizza il cammino infaticabile, talvolta fecondo […], che abbiamo intrapreso per sfuggire alla morte” (Lévy, p. 71).
La penetrazione delle tecnologie digitali nell’esperienza estetica produce una svolta epocale nella poetica dei nuovi media, i quali, votati alla progressiva destrutturazione del tempo e dello spazio, come fa il vento con l’Angelo della Storia riconosciuto da Walter Benjamin in un dipinto di Paul Klee, in quest’area museale, sembrano voler sospingere inquietamente e potentemente i visitatori a contemplare la tradizione e la memoria, ricomposte nel tripudio del panorama ercolanese, mentre il turbinio tempestoso del progresso continua a operare nella sfera mitica dell’eterno desiderio del ritorno.
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