Donna Haraway
suggerisce di resistere a questo potere a partire da figure marginali,
che promettono possibilità eversive proprio
perché situate ambiguamente sui confini. Prototipo di ogni
marginalità che porta in sé i germi della sua
rigenerazione è il cyborg.
Questi contiene due
movimenti di opposizione alla logica dialettica occidentale: compone i
dualismi irriducibili – è crasi di cybernetic
e di organism – e ricusa il logos
univoco a favore di un proliferare di discorsi parziali, specifici e,
perciò, responsabili. Il suo percorso non è di
trasgressione, un meccanismo frivolo e già interno
all’ordine dominante, funzionale a rimarcare quei confini che
finge di violare. Cyborg è etero-dossia ed etero-glossia,
è il tentativo prezioso di narrare diversamente la storia
dell’uomo, tradendo il racconto dominante nel linguaggio e
nei contenuti. È il corpo costruito e colonizzato da poteri
che ne fanno oggetto di sfruttamento, che acquista la
capacità di insorgere contro il suo creatore usando lo
stesso linguaggio con cui è stato soggiogato. Ha una
complessa potenza evocativa. Innanzitutto, visto come essere umano
potenziato da supporti tecnologici (non è necessario
arrivare agli innesti bionici, anche un banale paio di lenti a contatto
rende l’idea), o come androide con apporti biologici che lo
appaiano all’uomo, costringe a ripensare il concetto di
organismo, di corpo biologico, e i confini tra Natura e Cultura. Sul
corpo cyborg non attecchisce il mito del corpo come sede della Natura,
avversa all’artificialità, perché
questo è un’entità ossimorica, un
organismo artificiale che sprizza continue contraddizioni.
È il topos dove le soglie si
toccano, si frangono le barriere, la terra in cui perdersi tra sgomento
ed orrore.
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