Per
questi motivi indie è uno stile, e non come lo sono stati
gli altri, esclusivi ed escludenti, autopoietici si potrebbe dire.
È uno stile che appartiene all’alveo generalizzato
della musica tutta. Infatti una musica che suona come indie ha la sua
ragion d’essere prima di tutto nella necessità di
sintesi, come se lo sguardo dal geometrale più alto degli States,
quello della Sears Tower di Chicago, possa arrivare a catturare le
diverse tendenze che albergano altrove negli Usa, e concentrarle in un mood
singolo, in un mixaggio continuo ed incessante dagli arrangiamenti
raffinati di chi può permettersi un punto di vista centrale
ed eminente. Forse per questo andrebbe scelta Chicago come
città dei primi anni del Duemila. Chicago che è
la più progressista delle città americane, solido
fortino del Democratic Party nei suoi
ottant’anni di continuità municipale. La Chicago
capitale economica dell’Illinois, quello stato che,
affacciato sui Grandi Laghi, ha esportato ed esporta non solo il mais
al resto del mondo, ma anche il primo presidente afro degli States.
Chicago che, in fin dei conti, è forse la metropoli
più statunitense degli Usa, effervescente e multietnica,
perché riesce a condensare le anime diverse di una nazione
forse troppo grande e forse troppo osservata per restare sempre al
proprio passo. La Windy City riesce nel suo lavoro
di sintesi nazionale apprendendo dal Midwest
ciò che generalmente avviene altrove, mondando dagli eccessi
gli scivoloni a volte imbarazzanti dell’eccezionalismo made
in USA da esportazione. La città ventosa, allora,
da una parte oltrepassa la grandeur e i sensazionalismi della Grande
Mela dimenticandosi anche della spocchia dei dintorni del New England,
ma allo stesso tempo si tiene anche alla lontana dal provincialismo dei
grossi stati del sud, con i loro deserti, le loro spesse bistecche di
manzo e i goffi cappelloni di qualche ricco petroliere.
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