Se si
dovesse scegliere una città degli Stati Uniti
d’America, ai giorni nostri, in cui è
rintracciabile chiaramente lo spirito musicale di una visione del mondo
e di un modo di fare, andrebbe scelta senza dubbio Chicago, e non solo
per la sua classica e rinomata scuola di blues e di jazz che detta le
sue battute ai quattro venti, e nemmeno per lo stile martellante e
sequenziale della musica house che proprio da Chicago ha mosso i suoi
primi passi tra gli anni Ottanta ed i Novanta. Andrebbe scelta Chicago
perché è lì che converge buona parte
della produzione di quel genere musicale che prende la propria
definizione da qualcosa che entra nella musica solo liminarmente:
l’indie rock (dove indie sta per independent). Anche se
Boston potrebbe forse contendere a ragione il titolo di
città del nuovo rock, basti qui fare il nome di gruppi bostonians
quali Dinosaur Jr e Morphine, è Chicago che fa scuola. La
questione sta proprio nel motivo che dà il nome al genere,
l’indipendenza appunto e il prolifico lavoro di decine di
label anche semi-sconosciute. Indie, come detto, è
independent. È prima di tutto un movimento di idee che
trascende la sola concezione musicale per come essa appare
all’orecchio. Indie si affaccia sull’orizzonte
della produzione, nel lavoro costante e impagabile di piccole etichette
(non sempre troppo piccole) che contendono alla varie major il vessillo
del possesso e della promozione di un genere. E questa definizione
morbida, perché inclusiva e ingorda di prospettive, di indie
è proprio il portato di quella musica che non si identifica
con una sola wave, ma che assume da diversi generi
le proprie linee guida. Indie è la dissonanza del post-rock,
è la lentezza dello slow-core, ma è anche la
tradizione del folk, il nuovo richiamo identitario di un country
mitigato, è influenza jazz, fascino elettronico,
cantautorato classico, progressive e molto altro ancora.
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