Un certo livello di
accumulazione della
massa critica di
paura, e non di odio, è sufficiente per una manipolazione
continua
volta alla disseminazione di passioni belliche o perlomeno alla
giustificazione dell’inevitabilità della guerra.
Anche in quel momento
un cittadino semplice non è pronto ad uccidere il proprio
vicino di
casa per il solo fatto di appartenere all’altro gruppo etnico
o
religioso e quindi le autorità nazionalistiche si vedono
costrette ad
ingaggiare i criminali già incarcerati, i mercenari, i
tossicodipendenti ai quali passano gratuitamente e quotidianamente la
droga, i militanti politici esiliati che tornano in patria nel nome di
“elevati” scopi nazionali. In Bosnia-Erzegovina,
è impossibile trovare,
nemmeno nel più piccolo o disperso villaggio, gli abitanti
disposti ad
affermare che la guerra è iniziata perché un
vicino ha attaccato un
altro. La storia è sempre la stessa: qualcun altro, da uno
dei paesi
limitrofi, è arrivato e ha commesso il primo crimine
uccidendo la prima
vittima. In quel momento è sopravvenuta la polarizzazione in
due
gruppi: le potenziali vittime e i potenziali colpevoli. Questo
è il
momento di rottura in cui quelli che sono stati da anni intimiditi
attraverso i media e con altre forme di pressione psicologica e quelli
che da tempo venivano armati di nascosto dai leader nazionalisti che
preparavano la guerra, la accettano. Ma anche allora venivano
mobilitati con la forza e spesso succedeva che i soldati si
rifiutassero di partecipare all’assedio delle proprie
città con la
spiegazione di non voler ammazzare i propri concittadini. Un
combattente dell’Armija BiH2
che difendeva Sarajevo durante
l’assedio
della città durato tre anni e mezzo da parte
dell’esercito della
Republika Srpska3, ha
illustrato questo fenomeno con la seguente
testimonianza: “I primi anni di guerra li ho
passati difendendo la
mia città nella trincea che distava soltanto 50 metri dalle
trincee
dell’esercito della Republika Srpska. Tra la nostra e la loro
trincea
c’era un prato rettangolare non minato. Chiunque di noi
avesse tirato
la testa fuori dalla trincea poteva essere ammazzato. Dopo alcune notti
passate ad origliare e scrutare la trincea nemica, una mattina si
udì
una voce maschile che sorprese tutti quanti:
“Ehilà, ragazzi, perché
non giochiamo a calcio sul prato?!”. Pensavamo che si
trattasse di una
provocazione ma ci rassicurarono: “Non vogliamo
spararvi”. Questa è una
guerra insensata alla quale noi non vogliamo partecipare. Se avete
paura dite soltanto che neanche voi volete spararci e noi usciremo
fuori per primi”.
E
cosi fecero. Giocavamo a calcio
insieme tutti i
giorni. Se qualcuno avesse potuto vederci probabilmente avrebbe pensato
che eravamo matti. Oggi, invece, penso che noi eravamo più
normali
della maggior parte della gente. Una sera, dopo due
settimane di
partite di calcio, i soldati della trincea nemica ci dissero:
“Noi
domattina andiamo a casa per 15 giorni e al posto nostro
arriverà un
altro gruppo di soldati provenienti dall’altra parte della
Bosnia.
| |
State attenti perché loro probabilmente non avranno voglia
di giocare
con voi. Loro sicuramente spareranno. Se non starete attenti, se quelli
vi ammazzano, con chi giocheremo noi fra 15 giorni?” Loro
se
ne
andarono e successe proprio quello che avevano previsto. Le due
settimane successive non potevamo nemmeno tirare fuori la testa dalla
trincea perché i nuovi arrivati ci sparavano addosso in
continuazione.
Io sono stato ferito sei volte durante la guerra, ma non
dimenticherò
mai il gruppo di soldati con i quali abbiamo giocato a calcio per quasi
un anno”
Il direttore
di una fabbrica situata in un piccolo paese della Bosnia
centrale ha testimoniato: “I
soldati
dell’HVO4,
insieme ad altre unità paramilitari, hanno costretto, sotto
la minaccia
delle armi, gli abitanti di etnia musulmana ad uscire fuori dalle loro
case e li hanno portati in una scuola elementare che fungeva da campo
di prigionia. Alcuni giorni dopo hanno portato fuori
dall’edificio una
quarantina di prigionieri, tra i quali c’eravamo mia moglie,
i nostri
due gemelli di cinque anni ed io. Ci hanno messi in
fila e poi hanno
chiamato un signore in borghese, un croato. Quella persona era il mio
migliore amico. Gli hanno ordinato di scegliere dieci persone della
fila e di decidere come dovevano morire. Ero inorridito. Lui conosceva
ognuno di noi. Senza esitare si è girato verso gli aguzzini
e ha detto:
“Vergognatevi! Queste persone sono
innocenti e dovete
lasciarli andare
immediatamente!” Poi si è girato verso di me e
guardandomi direttamente
negli occhi mi ha detto: “Mi dispiace ma io non posso fare di
più per
voi. Io stasera sarò ammazzato ma a voi auguro buona
fortuna”. I
soldati lo hanno trascinato fuori e a noi ci hanno fatto rientrare
nella scuola. Il mio migliore amico ha avuto ragione: quella stessa
sera i paramilitari che appartenevano al suo gruppo etnico
l’hanno
ammazzato e noi invece siamo riusciti a metterci in salvo alcuni mesi
più tardi. C’è una domanda che mi pongo
in continuazione: chi ha il
diritto di parlare delle colpe collettive di qualsiasi gruppo etnico? |