He, She and it
si caratterizza, infatti,
per una scrittura che potremmo considerare cyborg, essendo
assolutamente non unitaria e identitaria ma presentandosi come un
ibrido di passato, presente e futuro, come una mescolanza di generi
diversi e di storie differenti che crea una particolare
intertestualità
tra romanzo storico, filosofico e fantascientifico. Una scrittura,
cioè, “onnivora, che si nutre di un patrimonio
attinto da più
tradizioni e da più culture” (Fortunati 2002, pag.
89). Siamo nel
2059 e il mondo è diviso in ventitré enclavi,
governate dalle multis,
grandi imprese multinazionali. La maggior parte della popolazione vive
fuori da queste enclavi, nel Glop, in cui dominano povertà,
violenza,
gangs e legge del più forte. Ci sono, poi, le
città libere, come quella
di Tikva, abitata da una comunità ebrea
d’artigiani high-tech del
software, in lotta contro il potere delle multinazionali che dominano
il mondo. La storia inizia con il divorzio di Shira,
una tecnologa
protagonista del romanzo che, in seguito alla separazione dal marito
Josh e alla perdita della custodia del figlio Ari, decide di lasciare
la Yakamura-Stichen – la multinazionale per la quale lavora
– e di
ritornare nella città nativa di Tikva, dove vive sua nonna
Malkah, una
scienziata di fama. Qui Shira accetta il compito di aiutare lo
scienziato Avram ad ultimare la programmazione di Yod, un cyborg
indistinguibile dagli umani, da lui creato. Da subito si pone in
rilievo il problema dell’identità e delle
demarcazioni convenzionali di
genere, nonostante già il titolo del romanzo ne affronti la
questione,
a tal punto che avrebbe potuto intitolarsi, come ci suggerisce Krestin
Shands, “He, she or it” (Shands 1994, pag. 141):
è Yod, questo cyborg,
un uomo, una donna o una macchina? Questo interrogativo equivale a
rimettere in discussione le nostre credenze e convinzioni su cosa sia
l’uomo, quale sia la sua natura ma soprattutto, da un punto
di vista
linguistico, la sua definizione. A ciò si aggiunge la
volontà di
descrivere un mondo caratterizzato dalle possibilità
cibernetiche e dai
continui sviluppi in campo tecnologico, in cui noi stessi annulliamo la
linea di separazione tra uomo e macchina, tra fisico e non fisico:
Yod, ormai siamo tutti innaturali.
Io ho subìto un
trapianto di retine. Mi sono fatta inserire uno spinotto nel cranio per
poter interfacciare con un computer. Malkah ha
un’unità sottocutanea
che controlla e corregge la pressione sanguigna […]. Siamo
tutti
cyborg, Yod. Tu sei soltanto una forma più pura verso cui
tutti tendiamo (Piercy 1991; trad.it.: 176).
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Si riprende qui l’idea del cyberpunk, secondo cui la
tecnologia è
diventata qualcosa di molto più intimo, nel senso che
è sotto la pelle,
dentro di noi, e il rapporto che s’instaura porta a
trasformarci, in
realtà, tutti in cyborg, risultato dell’unione di
organismo biologico e
cibernetica. Ma non si tratta solo di una questione fisica. Attraverso
le parole di Yod, infatti, Marge Piercy sottolinea come noi uomini
siamo, in un certo senso, programmati e costruiti da codici, da
pratiche e discorsi socio-culturali attraverso i quali abbiamo
sviluppato e fissato le funzioni da svolgere:
Sai nuotare Yod? Si,
anche se è una delle mie
capacità che non ho mai messo alla prova. Sono programmato
perché mi
piaccia esercitare le mie funzioni (ibidem: 120).
E ancora: Veramente
non trovi bello questo vestito? Un po’ sexy? Shira
non afferro il concetto. Devi pur
capire l’attrazione, Yod, visto che sei attratto da me. Ma
non perché hai un certo aspetto. Non
ci credo. Non
ho alcun criterio in base a cui giudicare l’aspetto umano.
Non sono
stato programmato per questo. Mi piace come sei fatta, ma mi piace
anche come è fatta Malkah. Trovo molte persone interessanti
da guardare. Lei
si ritrasse, offesa. […] Malkah gli sembrava altrettanto
attraente. Non
avrebbe mai dovuto preoccuparsi del proprio aspetto visto che lui
sembrava incapace di accorgersi dei suoi momenti peggiori come quelli
migliori, esattamente come le gattine non l’avrebbero mai
giudicata per
quelle che erano le sue sembianze. Spesso con Yod, quando lei assumeva
i comportamenti che le erano abituali con gli uomini, si ritrovava a
giocare da sola. Molti dei comportamenti uomo-donna non erano
semplicemente possibili. Non avrebbero mai discusso
sull’abbigliamento,
su ciò che lui trovava sexy, su ciò che lei
trovava degradante portare
o non portare, se era troppo grassa o troppo magra (ibidem:
283).
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