[ conversazioni ] | ||
Stefano
Pastor, musica libera
contro l'omologazione
di Marco Maiocco
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Sei dischi all’attivo, da tempo
impegnato nel portare avanti la
sperimentazione in campo jazzistico, il violinista
d’avanguardia
genovese Stefano Pastor è uno dei pochi talenti italiani in
grado di
aggiungere nuove pagine al libro mastro della storia del jazz. Dopo una formazione classica ed una più canonicamente “jazzistica”, il percorso è oggi sulle tracce della radicalità nell’improvvisazione e di un’esaltante strenua ricerca timbrica attraverso una mai doma intelligente duttilità. Il suo è un grido di protesta ancestrale realizzato con un suono rotondo, pastoso, quasi insufflato, come si conviene ai grandi del jazz immediatamente riconoscibile, cercato e trovato attraverso precisi accorgimenti sullo strumento. Incredibile come il suo violino possa sembrare uno strumento a fiato e allo stesso tempo ricordare Stuff Smith. Tra le recenti collaborazioni che hanno impreziosito la vicenda artistica di Pastor, segnaliamo l’incontro con Borah Bergman, storico e istrionico pianista della scena free newyorkese, famoso per la velocità con cui si muove sulla tastiera e l’interdipendenza delle mani, e il gruppo Anatrofobia, una giovane intrigante realtà piemontese sospesa tra il post-rock di matrice progressive e la musica contemporanea, con cui Pastor ha da poco inciso un avvincente lavoro di imminente pubblicazione. Lo abbiamo intervistato a breve distanza dall’uscita del suo ultimo impegno discografico che lo ha visto in azione con un pugno di musicisti inglesi maestri dell’estemporaneità e della radicalità in musica. Stiamo parlando di Helios Suite, (vedi Quaderni D’altri Tempi XIV) edito dalla Slam Records del sodale George Haslam, eccellente saxbaritonista che vive con Pastor un’intesa simbiotica paragonabile a quella tra Don Cherry e Ornette Coleman o John Gilmore e Sun Ra. Come nel precedente live Holywell Session (vedi Quaderni D’altri Tempi XII), sempre pubblicato dalla Slam Records, Helios Suite unisce il cosiddetto “british tinge”, così intriso di sfumature jazz-rock, con la radicalità di Pastor, sospesa tra l’avanguardia chicagoana e la “creatività” europea. | L’intervista, oltre a fare il punto sulla vita artistica di Stefano Pastor, prova ad offrire una breve riflessione sullo stato dell’arte nelle avanguardie del jazz. Considerata la tua formazione classica, perchè hai scelto di dedicarti al jazz, alla strenua ricerca di una voce personale, e alla più spregiudicata e viscerale sperimentazione in questo campo? Mi sono “ammalato” di jazz da adolescente, dopo aver ascoltato alcuni dischi di Coltrane. La trascendenza, l’intensità e la complessità di un disco come A Love Supreme hanno avuto il prevedibile effetto di stregarmi, ma da sempre la ricchezza di elementi melodico-armonici complessi, per non parlare degli aspetti ritmici e delle implicazioni poliritmiche tipiche del jazz, hanno per me un peso determinante. Suonando musica “classica” mi sono reso conto che avevo periodicamente un reale bisogno di ascoltare jazz. Dopo un partecipato ascolto degli Steps Ahead, ad esempio, mi accorgevo che ero in grado di interpretare Mozart con una maggiore freschezza ritmica, dovuta ad un modo di pensare il tempo molto intenso e rigoroso. Oggi sono definitivamente orientato alla musica improvvisata e credo proprio che, inconsapevolmente, abbia sempre cercato un’espressione musicale profonda e interiore; in questo senso mi sono progressivamente allontanato dalla musica scritta, interessandomi sempre di più alle forme libere, in grado di non occupare la mente con prescrizioni che distolgono dal vero obiettivo dell’espressione artistica: la comunicazione profonda. Una finalità che perseguo attraverso la via dell’introspezione. Riflettendo poi sul concetto di swing come gesto corporeo nella produzione del suono (I segreti del jazz, Stefano Zenni, Stampa Alternativa, Viterbo, 2008), arrivo a pensare che istintivamente ho sempre cercato questa via, quella cioè di riporre ogni fibra, fisica e spirituale, nel suono. Una ricerca che non si esaurisce mai e che nel jazz trova splendida realizzazione. |
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