Persepolis, storie di carta e di celluloide di Claudia Di Cresce | ||
Una sorta di rumore di
fondo che tiene alta per tutto il tempo
della
lettura, e della visione, una tensione emotiva costante, struggente. Il valore principale di Persepolis è forse proprio quello di essere una storia grande e piccola allo stesso tempo: il racconto di un quotidiano apparentemente normale unito alla percezione straniante di una grande tragedia universale in atto, un doppio livello di narrazione che consente un’immedesimazione inedita per il lettore occidentale in una realtà troppo spesso liquidata con termini generici, superficiali quando non apertamente xenofobi. Guardandola ancora da un ulteriore punto di vista, infatti, l’opera ci presenta la condizione dell’immigrato, costretto a costruire il proprio futuro nell’occidente “moderno” perché spesso non esiste altra scelta, in fuga da una realtà invivibile verso un’altra che sempre più raramente è disposta ad aprirgli le porte. Ne sono consapevoli i genitori di una Marjane ancora bambina, quando di fronte al precipitare degli eventi iraniani discutono tra loro: “Forse dovremo andarcene anche noi...” “Perché io mi riduca a fare il tassista e tu la cameriera?” E le cose non sono certo
cambiate quando, anni dopo, Marjane
riceve a Vienna una visita di sua madre che le racconta: Dietro la rabbia, la paura,
l’amarezza per le scelte
obbligate e il dolore delle perdite, è chiaramente
percepibile che Persepolis |
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