Lo sguardo è clinico, il camice bianco è rock

 

di Maria D'Ambrosio


In principio, potremmo dire, c’è – nell’immaginario collettivo - Artur Conan Doyle e il “suo”  Sherlock Holmes. Ovvero l’incarnazione – in forma letteraria - del cosiddetto “paradigma indiziario”[1] – o metodo ipotetico-deduttivo: il metodo scientifico da Galileo in poi. Metodo su cui si fonda l’evo moderno – e che pure affonda le sue radici in Aristotele, Vitruvio, Bacone, Leonardo, le cui opere e il cui pensiero hanno fornito, al mondo delle scienze come alla vulgata popolare, del materiale concettuale e visivo su cui costruire un ideale di uomo e di scienza e quindi una certa visione del mondo in cui a emergere è il dato sensibile, la sostanza, i corpi: forma e materia, investigabili e conoscibili.

A dire il vero, “prima” di Holmes ci sarebbe il Dupin di Edgar Allan Poe, il vero decano degli investigatori, il primo “occhio privato” della storia della letteratura di massa. L’occhio, non a caso, a esprimere il primato della vista e della visione, nel caso di Dupin ancora in una dimensione  dandy (apprezzata non a caso da Baudelaire), e quindi in un momento di sviluppo dell’immaginario che ancora deve entrare in pieno nella dimensione di una razionalità supportata dalla tecnologia della lente. Con Dupin siamo ancora alla pura speculazione – quella che peraltro permette di “vedere” ciò che, proprio perché troppo in vista, risulta invisibile.[2]  Siamo nell’area della “abduzione”, per dirla con Charles S. Peirce,[3] l’autore cui fanno esplicitamente riferimento Eco e Sebeok in Il segno dei tre, il testo citato più sopra.

D’altronde la lente – strumento galileiano per antonomasia – è anche l’icona con cui si rappresenta il personaggio di Sherlock Holmes e il suo metodo investigativo: è simbolo che enfatizza lo sguardo che si fa indagatore e penetrante al servizio della scienza, della ricerca della verità, e soprattutto è simbolo di una conoscenza fortemente legata all’interpretazione del visibile. Inoltre, con le storie di Sherlock Holmes, la scienza contro il crimine rinnova l’archetipo classico di buono contro cattivo, e attraverso l’intreccio narrativo rende popolare l’uso di un lessico tecnico e soprattutto l’assunzione di una logica causale.

Si può in qualche modo sostenere dunque che le opere degli artisti e dei filosofi, così come quelle degli scienziati, possono essere considerate da sempre opere dall’intento divulgativo: l’autore prova a rendere accessibile un mondo, facendo del proprio linguaggio un linguaggio comune. Il logos dunque forma una coscienza comune, una visione del mondo, che trova proprio nell’occhio e nella lente la metafora forte per significare l’irrompere di una teoria logico-razionale, “illuminata”, che mentre pare indicare il distacco e la superficie, guida di fatto alla riflessione e alla profondità.

Forse è la contraddizione del contemporaneo. Come di noi contemporanei. E lo dice bene Hans Georg Gadamer (1976) soffermandosi sul senso del termine theoria: ”La caratteristica più autentica dell’uomo, quest’essere subordinato, questa apparizione che si rifrange nell’universo, è che egli, nonostante la sua struttura limitata e finita, è capace di una contemplazione pura dell’universo. Ma nell’ottica dei Greci non sarebbe possibile ‘costruire’ una teoria. (…) Il termine ‘teoria’ non intende, come il rapporto teoretico pensato nell’orizzonte dell’autocoscienza, quella distanza dell’ente che permette di conoscere ciò che è in maniera imparziale e lo assoggetta pertanto ad un dominio anonimo. La distanza della theoria è piuttosto la prossimità e l’appartenenza. Il senso più antico di theoria è la partecipazione alla delegazione inviata alla festa in onore di un dio. Contemplare l’epifania del dio non vuol dire considerare in maniera distaccata uno stato di cose, oppure osservare uno spettacolo meraviglioso: contemplare significare prendere parte autentica a ciò che accade, significa un vero e proprio essere-presso”.[4]

In questo orizzonte di senso, il vedere è carico di un portato “teorico” in senso pieno, di quell’essere-presso cui fa riferimento Gadamer, appunto. Nel caso specifico della medicina, e della chirurgia in particolare, come fa notare Michel Foucault (1963) nella sua archeologia dello sguardo medico, l’invisibile si fa visibile – l’invisibile visibilità si realizza: i corpi vengono aperti, dissezionati, così che, dalla loro opacità si possa passare alla loro trasparenza. Il bisogno di verità supera il dogmatismo dell’evidenza e va oltre, legittimando una percezione anatomo-clinica che attribuisce all’occhio anche le potenzialità conoscitive della mano e dell’orecchio.

Una versione “forte”, radicale e definitiva di questa logica è illustrata in Drago rosso, il primo romanzo della saga di Hannibal Lecter, che precede Il silenzio degli innocenti.[5]

Anche qui si tratta di individuare un serial killer: il detective che si occupa del caso non può far altro che – e qui si svela un antefatto fondamentale a tutta la saga – rivolgersi ad Hannibal the Cannibal, per farsene fare un profilo. Solo che gli è molto difficile affrontarlo: il nostro detective conosce lo psichiatra folle perché, indagando su un altro serial killer, che dissezionava le sue vittime ancora vive, si era rivolto proprio a Lecter. Ricevuto da lui nel suo studio, si accorge che sulla parete alle spalle di Hannibal c’è proprio una riproduzione del dipinto “Lezione di anatomia del Dottor Tulp” di Rembrandt, che serviva da ispirazione al serial killer di cui era sulle tracce. A quel punto il poliziotto capisce di essere a colloquio proprio con la persona che cerca, in un gioco di specchi vertiginoso alla cui base c’è ancora una volta il meccanismo dell’abduzione.

Anche in questo caso la logica è la stessa:  del mettere in mostra per rendere invisibile. E contemporaneamente, è la dimensione dell’abduzione che permette di “conoscere la verità”, su una dimensione dello sguardo – quello di Lecter – che si fa pornografico, come sono pornografici i suoi tentativi di scavare nelle anime, quella della bella agente interpretata da Jodie Foster in Il silenzio degli innocenti prima di tutto.[6]      

Pertanto, è possibile collegare un discorso sullo sguardo e sul vedere con la nascita e la legittimazione della Ragione dei moderni, strettamente connessa alle tecniche e alla scienza e che oggi ha uno “sponsor” d’eccezione: gli obiettivi e le telecamere dell’industria televisiva cui è affidata la diffusione di una ragione unitaria che afferisce al modello scientifico, “positivo”, che vede, conosce, spiega e gratifica tutti gli appetiti di Verità e di Realtà.
 


[1] Cfr. Umberto Eco e Thomas A. Sebeok, (a cura di), 1983, Il segno dei tre. Holmes, Dupin, Peirce, Milano, Bompiani, e in particolare il saggio di Carlo Ginzburg: Spie. Radici di un paradigma indiziario.

[2] Edgar Allan Poe (1845), La lettera rubata, in Racconti, Feltrinelli, Milano, 2003. A questo racconto Jacques Lacan dedicò un memorabile “Seminario”, ora in Scritti, vol. I, Einaudi, Torino, 1974.

[3] Charles S. Peirce (1958), Le leggi dell’ipotesi, Bompiani, Milano, 1984.

[4] Hans Georg Gadamer (1976), La ragione nell’età della tecnica, tr. it, Genova, Il melangolo, 1999, p. 44.

[5] Thomas Harris (1981), Drago rosso (pubblicato anche col titolo Il delitto della terza luna nel 1984), Mondadori, Milano, 2002. Dal romanzo fu tratto il film di Michael Mann Manhunter Frammenti di un omicidio, USA, 1986, e più di recente il remake del 2002 di Brett Rattner.

[6] Thomas Harris (1988), Il silenzio degli innocenti, Milano, 1991. Da questo romanzo il film omonimo di Jonathan Lemme, del 1991.
 

     (1) [2] [3]