Lo
sguardo è clinico, il camice bianco è rock |
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Quello che il “caso” letterario Sherlock Holmes aveva
iniziato in termini di divulgazione di un metodo e di una logica, sarà
successivamente la fiction televisiva ad ampliarlo, individuando pure altri
personaggi come Poirot[7],
Maigret[8],
La Signora in giallo[9],
Colombo[10],
come “testimonial” di un “occhio clinico” che tutto può spiegare e tutto
risolve. Un ruolo chiave in questo generale scivolamento nelle
logiche più proprie della pornografia, che in questo caso potremmo indicare
come la variante nera del genere, è l’occhio-telecamera di C.S.I. che impietoso
affonda come un bisturi, sezionando gesti di corpi animati e di anime morte,
oppure vite rianimate a partire dalle ultime gesta di corpi inanimati. La telecamera diventa bisturi, microscopio, potente lente
che si insinua dovunque per far luce sulla storia di cui si vogliono conoscere
colpevole e movente. Inoltre, al gioco intrusivo della telecamera si accompagna
anche una grammatica e uno stile quasi da videoclip, che, complice una buona
colonna sonora insieme a numerosi flashback e altre forme stilistiche tipiche
di una narrazione non lineare, irretisce lo spettatore e lo coinvolge nella
trame di una storia che si ripete. L’occhio, lo sguardo, si abituano a guardare
sotto la superficie, cercano il più piccolo dettaglio per ricostruire fatti,
circostanze, indizi e prove. Il ritmo è molto serrato eppure non succede nulla.
Si scava solo in profondità, e a ogni episodio ci si sente sempre più pronti a
vincere le resistenze di tessuti, organi, materiali organici e inorganici, e a
vivisezionarne ogni piccola parte che possa ricondurre alla soluzione del caso.
La forza dell’apparenza non basta più allo spettatore
perché questi si possa dire appagato della sua necessità di sapere, di
conoscere. Questi ha imparato che la realtà che gli si fa presente è fatta di
bit, di pixel, di frammenti. In piena era elettrica, sa che lontano e vicino
sono astrazioni di cui non dover tener conto. Il suo punto di vista è sempre
più tattile e sempre più misura del suo essere e della sua capacità di azione e
di conoscenza. Lucidità e cecità non rappresentano più gli opposti contrari su
cui si regge la distinzione tra evo antico e evo moderno. Il buio, l’ombra,
l’occulto, invitano alla scoperta, alla investigazione, alla indagine. Proprio
come un crimine per la squadra dei capaci poliziotti di CSI. Basta farlo con
gli strumenti giusti. Sembrerà discreto quasi come mantenersi in superficie.
L’occhio indiscreto, pur nell’essere intrusivo, mantiene le distanze e allo
stesso tempo si fa capace di inaugurare un nuovo senso comune, interprete di un
desiderio che supera anche le possibilità del toccare e ha quasi del
prodigioso. Il mood della serie CSI coincide con il mood dei suoi
spettatori, coltivati a una televisione di ‘quarta generazione’: la generazione
delle immagini digitali, della produzione su cui imperano le grammatiche della
postproduzione e quindi dell’editing più cinematografico che televisivo, degli
effetti visivi più che della ‘trasparenza’ del telefilm, del documentario o
della testualità televisiva in generale. Il frutto di questo accoppiamento è una forma estrema di possesso dove il conoscere si incorpora nel vedere e le sue enormi potenzialità di dominio e di controllo. Prima a distanza. Telescopio, macchina fotografica, e poi cinema, televisione, lasciando spazio a una volontà di afferrare ciò che sembra destinato al solo passaggio, distante o comunque estraneo all’umano esperire quotidiano. La produzione di fiction, verbale e poi visiva e audiovisiva, segna come un continuo avvicinamento dell’estraneo o del diverso, del distante, dentro la sfera quotidiana della gente comune. Ma il balzo e la specificità cui sembra di assistere o di partecipare oggi è da situare in un’altra direzione che pure appartiene alla produzione finzionale: la volontà di penetrare ciò che è già vicino, la necessità di alterare le dimensioni naturali e quindi la possibilità di estraniare il già noto per ridargli senso, fornirgli un senso nuovo che è il mezzo stesso di cui ci si serve per coglierlo e per mostrarlo. Dunque zoom, microscopi e altre diavolerie sono le armi al servizio di questa volontà-necessità che spinge in profondità. L’esperienza del vedere non lascia spazio alle distanze: chiede di aprire alla dimensione tattile e allo spettacolo del profondo e dell’interiore (come, d’altronde, già legittimato da alcuni saperi e discipline: la psicologia freudiana e postfreudiana, le neuroscienze, …). Aprire o chiudere gli occhi, estroflessione o introflessione, è, perciò, inteso comunque come gesto visionario, eccessivo, che rompe il limite e supera le distanze consentite perché l’estraneità del mondo nel quale ciascuno è gettato o da cui emerge diventi realtà in cui sentirsi implicati o di cui essere consapevoli. Aprire e chiudere e gli occhi rispetto allo schermo della TV diviene un esercizio per mettere alla prova la capacità di toccare la parte più nascosta del reale, anche ciò che sfugge allo sguardo più attento. E i prodotti seriali ben si prestano a questo rinnovato esercizio estetico ed epistemico. La TV partecipa di un processo più generale di rottura con le regole imperanti nella società dello spettacolo (pur avendo contribuito essa stessa a instaurare tale modello).
L’industria televisiva, non
solo americana, ne ha moltiplicato la portata mescolando i temi del poliziesco
con quelli afferenti la medicina e la Sanità, che sono confluiti in un metagenere di grande successo che chiama in azione numerosi e differenti nuovi
super-eroi, non più in calzamaglia e superpoteri, ma in camice e stetoscopio.
Così nel panorama domestico, d’oltreoceano e non, è entrato un lessico da
anatomo-patologi, biologi e chirurghi, che rende familiare un vocabolario e una
prassi prima lontane dallo sguardo dei più e fornisce gli strumenti perché,
anche lontano dagli schermi, si possa contribuire alla circolazione di discorsi
in cui a dominare sia una logica sequenziale. La capacità, cioè, di utilizzare
“il” metodo: di ripristinare l’ordine, così da attualizzare l’essere-presso gadameriano che,
attraverso il tele-vedere, si fa partecipe delle guarigioni e si appassiona a
prassi diagnostiche che rendono legittimo un fare esplorativo e intrusivo che
viola il buio (e la privacy) dei corpi e restituisce loro la luce, la
leggibilità oltre che la visibilità.
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