Essi ci guardano dappertutto di Roberto Paura


Ignorano cosa siano le torri, chi ci sia dietro, quali siano gli scopi, quali le dinamiche dell’osservazione, quanto durerà la situazione. La storia si apre con una frase molto eterodossa: “Il giorno seguente, chissà perché, nelle torri d’osservazione si verificò un improvviso aumento di attività”. Manca qualsiasi riferimento temporale, “il giorno seguente” non indica altro che il susseguirsi ripetitivo di un’attività di cui si ignora l’inizio e naturalmente la fine, mentre il “chissà perché” evidenzia non solo l’assoluta ignoranza del comportamento degli osservatori, ma anche l’ormai completo disinteresse verso ipotesi e congetture (quando la signora Osmond chiede a Renthall se gli alieni si preparano ad atterrare, l’uomo accantona l’ipotesi con irritazione, quasi infastidito dalla futilità della domanda). Anche se Ballard, poi, ha abituato il lettore a confrontarsi con realtà ermeticamente chiuse nei confronti dell’esterno, il fatto che il fenomeno delle torri avvenga solo all’interno del paese in questione e che nessuno comunichi con l’esterno è un altro elemento straniante che gioca a favore del messaggio che l’autore cerca di comunicare. L’anonima cittadina della storia racchiude in realtà un mondo intero, che come tale non può cercare fuori di sé la soluzione al problema.

Di qui si entra quindi nel tema politicamente più scottante del racconto, quello della collusione tra il Consiglio e gli osservatori. Qui le interpretazioni possono sprecarsi ma il senso di fondo resta immutato: sia che il Consiglio abbia deciso di stringere un patto con gli osservatori per mantenere il potere e anzi ampliarlo attraverso il reciproco scambio di informazioni sui cittadini, sia che le torri d’osservazione – come sembra più probabile – non siano altro che creazioni del Consiglio per mantenere la popolazione nel terrore e poterla così controllarla, il tema del controllo è quello che ritorna. Controllo che, naturalmente, è possibile solo laddove c’è conoscenza di chi detiene il potere e ignoranza di chi lo subisce[8]. Lo status quo che si è venuto a instaurare viene alimentato dai politici della città perché ciò dà loro la possibilità di disincentivare qualsiasi spinta al cambiamento, di congelare la vita dei cittadini all’interno di schemi rigidi e facilmente controllabili, ma soprattutto ciò consente loro di porsi nei confronti della gente comune come gli unici detentori della verità. Solo il Consiglio, che comunica con gli osservatori, sa cosa è giusto e cosa è sbagliato fare e può così proibire un comportamento – come la festa di Renthall – giustificando l’ordine come imposto dall’alto. Si costruisce così la formidabile struttura del controllo totalitario della società, quello imposto dal leader supremo che è l’unico a conoscere il fine ultimo della Storia e indirizza il suo popolo in quella direzione, giustificando ogni azione alla luce della rigida ortodossia ideologica e rimuovendo ogni ostacolo che impedisce il raggiungimento dell’obiettivo. Controllo totale e dominio totale diventano due realtà indissolubili. Il finale della storia presenta l’inevitabile esito di tutto questo: la società, ormai consapevole della schiavitù a cui è asservita, cerca di mantenere una parvenza di normalità ignorando sfacciatamente le torri, fingendo che non esistano e riprendendo la routine giornaliera per cercare di dare un senso alla propria vita, ma consapevole che un senso può esserci solo fingendo che tutto sia a posto. Renthall, che non accetta l’exit strategy estrema della finzione, diventa così il diverso, il vero alieno della storia, il “pazzo del villaggio” che si ritrova presto ai margini della società e sul quale si fissano infine i mille occhi del potere, pronto a rimuoverlo o peggio a condurlo alla follia per poterlo additare come esempio da non seguire, l’anticonformista da perseguire.

Con Rapporto di minoranza[9] di Dick si giunge all’apice di questo percorso ideale che conduce alla costruzione di una perfetta società del controllo. Il sistema dei precog, esseri umani menomati per nascita ma dotati di poteri psi e capaci perciò di osservare il futuro, ha consentito di estirpare dagli Stati Uniti ogni traccia di seria criminalità: la Precrimine, ossia quella che è diventata la polizia, non deve più accorrere sul luogo del delitto a posteriori e indagare per trovare l’omicida, ma si limita a decifrare i rapporti dei tre precog e bloccare il criminale prima che il delitto sia compiuto. Legge e ordine sono così assicurati, a costo di una completa perdita di autonomia e libero arbitrio da parte dei cittadini. Contro tutto questo viene ordito un complotto da parte dell’esercito per sconfessare il sistema della Precrimine e aprire così nuovi spazi per i vecchi tutori dell’ordine. Il capo della polizia, Anderton, si ritrova così additato dai precog come futuro assassino dell’ex capo dell’esercito, Leopold Kaplan, nonostante i due non si conoscano affatto l’un l’altro. Anderton, dopo aver sospettato praticamente di tutti, capisce di avere di fronte a sé due sole possibilità: uccidere Kaplan e dimostrare il funzionamento della Precrimine, così da salvare il sistema in cui crede; o non ucciderlo, salvarsi ma permettendo alle forze dell’esercito di riassumere il controllo dello Stato e riportarlo in una situazione di caos e legge marziale. Ecco che, nel dramma tutto individuale di Anderton, si può leggere la dicotomia conflittuale tra determinismo e libero arbitrio, il primo inevitabilmente imposto da un “sistema” di cui Anderton è a capo ma che è diventato così folle da coinvolgere direttamente anche lui; il secondo derivante da quel minimo spazio di libertà che gli è ancora concesso grazie al “rapporto di minoranza” di uno dei precog che, se vero, lo scagionerebbe dall’accusa. In realtà questa speranza di salvezza viene proprio indicata da Dick in ciò che dà il titolo al racconto, il rapporto di minoranza dei precog. Il sistema funziona così: i tre precog osservano ciascuno un possibile futuro e decidono qual è quello che si verificherà semplicemente a maggioranza, nel senso che il futuro visto da due dei tre è considerato quello vero, mentre il minoritario è scartato come irrealizzabile. Resta però aperta la possibilità, remota, che quel futuro minoritario prima o poi si verifichi ed è a questa speranza che Anderton si aggrappa disperatamente. Tuttavia, su questa stessa speranza si basa il gioco del generale Kaplan, che mira a dimostrare come migliaia di innocenti – tra cui lo stesso Anderton – sono e saranno arrestati dalla Precrimine per un semplice calcolo probabilistico.

Dick realizza in questa storia un vero circuito chiuso dal quale sembra non esserci via d’uscita. Non è una novità della sua produzione, pur tuttavia in questo caso il vicolo cieco non si crea solo per il protagonista ma per l’intera società che Dick ha disegnato, una società che nel suo essere prigioniera di se stessa diventa più cupa e distopica di quella di romanzi come La svastica sul sole o Tempo fuor di sesto perché spaventosamente vicina alla nostra. Leggiamo all’inizio del racconto il tronfio orgoglio di Anderton nel mostrare la forza della Precrimine che ha contributo a fondare: «Certamente saprà che la Precrimine ha permesso di ridurre i crimini del 98,8 per cento» ricorda Anderton al suo vice. “Io ne sono fiero. Trent’anni fa elaborai la teoria… qualcosa che aveva un enorme valore sociale”.


[8] Il rapporto ‘conoscenza-potere’ è un leit-motiv della produzione filosofica di Michel Foucault. La conoscenza è la conditio sine qua non per il controllo della società, nei regimi totalitari come in qualsiasi contento anche democratico. A tale proposito cfr. Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977; Poteri e strategie; l’assoggettamento dei corpi e l’elemento sfuggente, Mimesis, Milano 1994. Gioverà ricordare che nel suo saggio Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976, l’autore analizza in dettaglio il tema della società del controllo riprendendo il “Panopticon” di Bentham. Foucault ha anche curato un’edizione del classico benthamiano edito nel 2002 da Marsilio.

[9] Philip K. Dick, Rapporto di minoranza, in Rapporto di minoranza e altri racconti, Fanucci, Roma 2002, pp. 25-74.
 

     [1] [2] (3) [4]