Essi ci guardano dappertutto di Roberto Paura


 

Le rivelazioni del giovane fisico sono tuttavia ben più sconcertanti di quanto inizialmente previsto da entrambi: si scopre infatti che la cronoscopia è una scienza che da decenni non ha fatto alcun passo avanti, non insegnata né studiata da nessuno. Solo dopo essere riuscito a mettere le mani sull’unico testo di cronoscopia esistente al mondo, il dottor Foster si rende conto di due fatti sorprendenti: il primo è che il cronoscopio non può, per particolari legge quantistiche, osservare un passato più remoto di un secolo e mezzo, cosa che contrasta chiaramente con i bollettini ufficiali del governo che pubblicano ricerche cronoscopiche di storia antica; il secondo è che il cronoscopio può essere costruito da chiunque, disponendo di mezzi facilmente reperibili e di un manuale, nella cantina di casa. È solo a questo punto che il cronoscopio si rivela nella sua mostruosa veste: la moglie del professor Potterley irrompe impazzita nella cantina di casa desiderosa di usare la macchina per osservare nel passato la figlioletta morta all’età di quattro anni. Potterley, stravolto, la ferma e distrugge il cronoscopio temendo che la moglie scopra l’orribile verità, e cioè che l’incendio che uccise la loro figlia fu provocata da una sua sigaretta non spenta. “Tutti abbiamo un passato di cui ci vergogniamo”, afferma a un certo punto Potterley. L’idea che qualcuno possa scoprirne con facilità i dettagli rende il cronoscopio un’arma spaventosa. Così che ciò che inquieta non è tanto la frase finale, un po’ ironica: “Buon soggiorno a tutti nella vasca dei pesci rossi”; ma quella che poco prima il massimo funzionario dell’Ufficio Cronoscopia, da anni incaricato di sopprimere la verità, rivolge all’eccentrico zio del dottor Foster che gli chiede cosa sappia di lui: “Tra poco noi conosceremo tutto, di lei”. Perché quel tutto ha una spaventosa implicazione letterale che mai potremmo accettare: l’idea che ciò che è nascosto anche a noi stessi possa essere disvelato a osservatori esterni.

In realtà Il Cronoscopio acquista proprio nella sua conclusione il vero senso che in questa sede ha rilevanza. Ad un certo punto infatti Potterley e Foster si rendono conto che il passato non esiste, nel senso che è passato anche solo l’attimo, il microsecondo, l’istante prima del presente. Osservare il passato non significa dunque altro che osservare il presente con uno scarto di una frazione infinitesima – e forse nulla – di secondo. Questo consentirebbe a chiunque non solo di scoprire la verità sul passato di chiunque, ma anche di seguirne le mosse nell’immediato presente e di controllarne ogni singola azione: “La massaia, dopo aver rivissuto fino alla noia la sua giovinezza, comincerebbe a spiare il marito, la vicina di casa…” Ecco che il mondo diventa davvero la vasca dei pesci rossi, senza pareti, senza alcuna possibilità di sfuggire all’occhio senza volto o ai milioni di occhi senza volto che controllano ogni istante della nostra esistenza, esistenza non più privata ma pubblica e in quanto tale completamente disumana. La vera essenza dell’individuo, che come avrebbe detto Erving Goffman[6] si costruisce dietro le quinte, al riparo dal palcoscenico pubblico dove mettiamo in scena solo la nostra parte pubblica, scomparirebbe completamente. L’io non avrebbe così più senso: esisterebbe solo il noi, pronome personale della spersonalizzazione, della disumanizzazione.

Il tema della spersonalizzazione del controllo totale, o meglio ancora dell’alienazione nel senso quasi “fantascientifico” del termine, è tuttavia più evidente nel racconto di James Graham Ballard, Le torri d’osservazione[7]. In un’anonima cittadina inglese gli alieni – o chi per loro – spiano i movimenti della popolazione da grandi finestre all’interno di innumerevoli torri che pendono dal cielo. Finestre che permettono di vedere chi sta fuori, ma non di scorgere chi guarda da dietro. Così, questi esseri senza volto opprimono la vita quotidiana di centinaia di persone costrette quasi sempre in casa, incapaci di vivere più come prima. Ad un certo punto Renthall, una di queste persone, decide che le cose devono cambiare e si dà da fare per organizzare una festa all’aperto, proprio sotto una delle tante torri, per sfidare il gioco e il giogo dei misteriosi osservatori. La cosa si rivela da subito non facile: i cittadini sono restii e soprattutto temono la reazione del Consiglio comunale che sembra voler a tutti i costi mantenere lo status quo. Renthall presto intuisce che esiste un legame tra gli osservatori e il Consiglio, e decide di non sottomettersi ai divieti di quest’ultimo per fare uscire allo scoperto il complotto che crede si sia venuto a creare. Il Consiglio ammette che le cose stanno come Renthall supponeva, e cioè che esso prende ordini dalle entità delle torri, ma proprio quando sembra che Renthall abbia avuto ragione le cose cambiano improvvisamente. D’un tratto, nessuno più si oppone al progetto della festa, tantomeno il Consiglio. Indagando, Renthall scopre che nessuno più tranne lui vede le torri e poco dopo si rende conto che nessuno ne ricorda l’esistenza. Le torri d’osservazione, semplicemente, non sono mai esistite. Creduto pazzo, Renthall corre per le strade della città nei cieli della quale continuano a imperversare le spaventose costruzioni, fino a quando improvvisamente tutte le torri aprono le loro finestre: “Fin dove poteva spingersi il suo sguardo, tutte le finestre di osservazione erano spalancate. In silenzio, senza muoversi, gli osservatori lo fissavano”.

Come tutti i racconti di Ballard, anche questo si presta a tanti piani d’interpretazione ma essenzialmente il suo significato sta in una critica, violenta e inquietante, verso quelli che chiameremmo “gli occulti poteri forti”. Forti perché capaci di controllare la società nei suoi più minimi aspetti, attraverso l’osservazione che costringe gli abitanti della cittadina ad atteggiamenti irreprensibili: la relazione “sconveniente” tra Renthall e la signora Osmond dev’essere tenuta nascosta a tutti, ma in primo luogo agli osservatori delle torri che sembrano così incarnare l’anonima onniscienza del “vicinato”, che tutto sa e tutto disapprova. Occulti perché senza volto, capaci di vedere senza farsi vedere, come le telecamere dietro gli specchi nel reality show Big Brother, o – peggio – gli invisibili ascoltatori dietro la rete Echelon, umani o computer che siano non fa differenza. Le torri d’osservazione trova la sua forza nel contrasto conoscenza/ignoranza: mentre gli osservatori sanno tutto della vita dei cittadini, potendoli osservare continuamente, forse addirittura attraverso i muri, gli osservati non sanno assolutamente nulla sul conto di chi li controlla.


[6] Cfr. Erving Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna 1997.

[7] James G. Ballard, Le Torri d’Osservazione, in Tutti i racconti 1956-1962, Fanucci, Roma 2005, pp. 621-658. Cfr. anche la scheda in “Quaderni d’Altri tempi” n. 8,
http://quadernisf.altervista.org/numero8/indexconquista.htm

 

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