E.T. e la metafora del buon selvaggio
di Adolfo Fattori e Valerio Pellegrini

 

 

L’amico immaginario

Oltre alla sua centralità nella storia del cinema, dobbiamo ricordare anche che E.T. è l’amico immaginario del bambino Spielberg. E.T. è soprattutto un omaggio (nostalgico e personalissimo ma anche, come vedremo, sottilmente eversivo) che il regista ha voluto  tributare a quelle letture, a quelle atmosfere che hanno caratterizzato la sua adolescenza. Il regista affidò la sceneggiatura a Melissa Mathison (compagna di Harrison Ford) evidentemente interessato al modo con cui la scrittrice aveva sviluppato il tema della sensibilità infantile nel film Black Stallion di Carroll Ballard.

Nello script di E.T. sono raccolte, in forma allegorica, numerose esperienze proprie dell’infanzia e della pre-adolescenza: la difficoltà di relazione con gli altri ragazzini (probabilmente complicata dal fatto che i genitori del protagonista si sono separati e in famiglia manca una figura paterna) e l’attaccamento quasi morboso ad un alieno qui referente di un animale domestico o di un giocattolo.

L’attenzione alla psicologia infantile e all’immaginario delle fiabe è avallata da numerosi elementi della sceneggiatura. Prendiamo ad esempio la foresta dalla quale viene l’alieno e nella quale si svolgono le scene più significative del film. In molte fiabe, il bosco rappresenta il potere degli spiriti oppure simboleggia la trasformazione, la crescita. In questa edizione speciale, grazie al potenziato fotorealismo degli effetti visivi, acquista maggior spessore emotivo la scena in cui Elliot ed E.T. si alzano in volo con la bicicletta: si vede chiaramente l’uscita del bambino i Elliot ed E.T. dalla foresta (il labirinto spirituale della crescita) e l’emozionante salto nel vuoto che diventa un volo glorioso grazie ai poteri telecinetici dell’alieno. I due corpicini e la bicicletta - ripresi in campo lungo e in contro luce con una gigantesca e brillante Luna stagliata sullo sfondo - disegnano una indimenticabile sagoma, iperbolica celebrazione della creatività e della fantasia umana. Nell’opprimente contesto della persecuzione da parte degli adulti e delle autorità costituite l’immagine si carica anche di un altro significato: la pura e genuina espressione delle libertà individuali.

A proposito di psicologia infantile annotiamo anche il legame telepatico che lega il bambino e l’alieno persino nella sofferenza fisica: questo elemento ricorda le caratteristiche reazioni somatiche di certi bambini alle avversità ed agli eventi traumatici. Notiamo anche il senso di sacralità che i ragazzini del film danno ai giuramenti e agli accordi che fanno tra loro. E questo ci riporta al caratteristico modo in cui Spielberg sceglie di inquadrati i personaggi adulti: (tranne pochissime eccezioni) sempre senza mostrarne il volto, solo le gambe o altri dettagli. Come disse Spielberg: «Ricordavo i cartoons della Warner e della MCM, di Chuck Jones, di Friz Freleng, Tex Avery, di tutti i grandi disegnatori degli anni Quaranta. Spesso sceglievano piccoli personaggi - soprattutto cani e gatti - ed escludevano gli adulti: dei quali, magari, si scorgevano in primo piano soltanto le mani, le scarpe, le gambe... Volevo diventare uno di questi bambini: non un adulto che parla ai bambini attraverso gli adulti!». Il senso comico dei cartoons viene però trasfigurato in un contesto di suspense e la particolare metodologia visiva adottata dal regista acuisce il senso di minaccia sin dalle prime scene in cui gli agenti governativi sono alla ricerca dell’alieno nel bosco.  Lo spettatore vede solo particolari metonimici degli uomini in marcia, soprattutto i fasci luminosi di torce elettriche che frugano tra gli alberi. Tra questi uomini ce n’è uno di cui ci viene mostrato continuamente il dettaglio di un mazzo di chiavi che porta appeso. “Keys” (chiavi). un dettaglio di caratterizzazione che diventa addirittura (nei crediti finali) il nome che identifica il personaggio. Di costui scopriremo il volto e l’umanità solo nelle sequenze finali (l’interprete è Peter Coyote) ma il film resta un’avventura con i ragazzini assoluti protagonisti e la trama si avviluppa entro una rete di segni e di simboli che gli adulti non possono capire. L’abile direzione del gruppo di giovanissimi attori (da notare che il piccolo Elliot ovvero Henry Thomas, spuntò fuori da provini riservati a non professionisti) opera un inconsueto rovesciamento della visuale soggettiva dei racconti di fantascienza solitamente popolati da adulti eroici. E.T. è invece un film contro gli adulti. Nemmeno la madre di Elliot o il misterioso signor Chiavi (che nel finale rivelerà di sognare l’incontro con l’alieno da quando aveva 10 anni) possono capire. Bisogna sottolineare che il grande successo di E.T. origina una tendenza della cultura cinematografica degli ultimi anni che lavora contro la centralità sociale dell’adulto.

Ma sarebbe fuorviante denunciare gli scopi meramente commerciali di tale tendenza. Ci impedirebbe di capirne l’impatto sulla mitologia contemporanea e soprattutto distoglierebbe la nostra attenzione da una complessa dinamica psicosociale in atto nella civiltà occidentale: la progressiva infantilizzazione dell’individuo adulto. Spielberg è forse il precursore tra i più lucidi depositari di questa significativa esplorazione culturale, di questo sguardo autoriflessivo. Del resto è evidente come E.T. rappresenti un ritorno alla fiaba, con i suoi boschi, la presenza dei bambini, il viaggio. Con una articolazione particolare: se nella fiaba classica noi seguiamo il peregrinare del protagonista, il suo superare ostacoli e prove, in un percorso che simbolicamente lo rende adulto, nel film di Spielberg ne viviamo solo una fase, quella dell’incontro fra il piccolo alieno – il protagonista – e i bambini che lo accolgono, come in un rovesciamento speculare della fiaba classica, alla fine della quale l’extraterrestre lascia in dono ai bimbi terrestri sensibilità e accoglienza. Nel finale del film, E.T. saluta Elliot prima di partire: “Io sarò sempre qui”, indicando il cuore del bambino. L’astronave aliena decolla e balza nello spazio profondo lasciandosi dietro una scia luminosa. Quel segno nel cielo rappresenta un dono: qualcosa che ha posto radici nelle coscienze (al di qua e al di là dello schermo) e che rimarrà a lungo nell’immaginario collettivo.

 

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