E.T. e la metafora del buon selvaggio
di Adolfo Fattori e Valerio Pellegrini

 

 

Del resto Spielberg ha vissuto in pieno i fermenti culturali degli anni ’60. Anche a Hollywood una nuova consapevolezza stimola una rilettura ideologica di certi modelli narrativi classici. In particolare vengono rivisitate le saghe western: il mito della frontiera è un pilastro della letteratura americana che, sotto molti aspetti, può essere considerato la culla culturale della narrativa fantascientifica. La storia vista dal punto di vista dei nativi americani è al centro di pellicole quali Soldato Blu o Piccolo grande uomo. Storie che rilanciano un’ultima volta il western e le sue tipiche funzioni-segno narrative. Soprattutto films che stimolano una nuova ricerca a proposito dell’incontro con l’altro, ponendo le basi per una vera e propria esplosione della space opera che si avrà di lì a poco.

Ed ecco Star Trek, il famoso serial spaziale degli anni ‘60, contribuire a questo brodo culturale e svelare in maniera inconfutabile il legame genetico western-science fiction. «Per arrivare là dove nessuno è mai giunto prima…», recita lo slogan della serie. Non dimentichiamo che nel 1968, oltre all’esplodere di una fase storica particolare, produttrice di profondi cambiamenti culturali specie nel mondo giovanile, accade un fatto importantissimo: l’uomo sbarca sulla Luna, e milioni di persone in tutto il mondo assistono all’evento in diretta. Grazie al binomio tecnologico razzi spaziali-mass media si ha il corto circuito tra due grandi miti: quello della Luna come simbolo per eccellenza dell’immaginario; e quello di una possibile conquista del cosmo da parte dell’uomo. La fantascienza, o almeno una sua parte, cambia pelle: meno imperi galattici e guerre interplanetarie, più attenzione ai rapporti con le possibili alterità spaziali e con i nativi extraterrestri.

Proprio in virtù di questa connessione West-Spazio, sono pertinenti le fondamentali analisi sul significato del genere western che il critico letterario Leslie Fiedler andava sviluppando in quegli anni. Le sue teorie sul pellerossa e sull’alterità in generale vanno senz’altro a braccetto con tutte le analisi che verranno sulla funzione-segno dell’alieno e sull’esplorazione di nuovi mondi. Per esempio: «Al nocciolo del western non vi è la lotta con un ambiente nuovo e ostile, ma l'incontro con l'indiano, quell'individuo a noi del tutto estraneo per cui il Nuovo mondo è una vecchia dimora». Non è forse identico a questo il nocciolo della space opera e di quei film sugli alieni come E.T.? Naturalmente il film di Spielberg presenta l’importante inversione di segno consistente nello sradicamento dell’alieno dal suo mondo e il fatto che sia lui ad esplorare un nuovo mondo. La bontà o la malvagità dell’alieno non è più il principale motivo di interesse agli occhi del cineasta. L’alieno (con la sua sola presenza) implica automaticamente un confronto con una cultura altra e (con i suoi problemi) si carica di significati come simulacro dell’individuo gettato nella moderna società cosmopolita (o almeno che vorrebbe esserlo). Sempre nel suo studio sul western Fiedler afferma: «Se esiste ancora, per noi, una natura selvaggia e un luogo fuori del tempo adatto al rinnovamento più che alla nostalgia, alla rinascita più che alla evasione, quel luogo deve trovarsi nel futuro, non nel passato: gli albi a fumetti e i romanzi di fantascienza». La nostra società futura, vista come rete urbana o come confederazione di pianeti, diventa l’ultima frontiera del western. Dunque E.T. è una pietra miliare della fantascienza non solo perché segna il definitivo abbandono di una prospettiva colonialista nel codice di genere ma anche perché il piccolo “selvaggio” piovuto da un altro pianeta contribuisce ad illuminare quel fitto scambio simbolico tra il western e la space opera che si ha nel cinema di quegli anni, a partire dal saloon intergalattico visto in Guerre Stellari (1977) di George Lucas.  


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