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L’amata
cinepresa di Spielberg si concentra sulle vicende di una famiglia
“qualunque”, quella del padre operaio impersonato da Tom Cruise e dei due
figli turbati dal divorzio dei genitori. L’invasione aliena è un pretesto per
analizzare le reazioni umane sulla piccola e grande scala, partendo dai tre
protagonisti che fanno a gara a chi urla e delira di più e arrivando alle
grandi masse di pecore/uomini che l’impotenza riduce all’autodistruzione. Il
finale si concentra tutto sulle vicende private, sull’arrivo a Boston dove
vive la moglie di Cruise e la madre dei due bambini e dove la famiglia divisa si
riabbraccia e supera le diffidenze in nome della lotta al comune nemico. In
tutto questo Spielberg vuole fare il verso ai film catastrofici oggi di moda
senza rendersi conto di seguirne le orme, e crede di sperimentare usando la
storia “sociale” di
Wells per approfondire la psicologia degli americani
post-11 settembre, senza rendersi conto che tutto è già stato sperimentato e
ormai abusato. Soprattutto, si dimentica che tutto questo l’aveva già fatto
lui stesso con Incontri ravvicinati del
terzo tipo ed allora ci era riuscito in pieno. Ancora una volta si perde il
senso originale della storia, la fantascienza si riduce a un pretesto per
parlare di qualcosa di attuale lasciando andare l’insegnamento di Wells che,
pur legato anch’esso alle vicende dell’epoca, trascendeva la storicità e
raggiungeva l’universalità. Discorso
leggermente diverso può essere fatto per Planet
of Apes (2001), il remake messo in scena dal talentuoso Tim Burton del Pianeta
delle scimmie del 1968. Burton prova a mettere da parte lo storico film con
Charlton Heston e ad avvicinarsi maggiormente al romanzo ispiratore del francese
Pierre Boulle, dove il tema centrale è il rovesciamento dei ruoli e la satira
dei mille difetti umani proiettati su una civiltà di scimmie dotate di
raziocinio che trattano l’uomo come l’ultima delle bestie. Il film diretto
da Franklin J. Schaffer, girato in un’epoca tra l’altro tumultuosa
(quella dei conflitti generazionali sessantottini), riprendeva soprattutto le
invettive di Boulle verso l’orgoglio dell’uomo nei confronti delle sue
capacità tecniche e il conflitto tra visione creazionista e evoluzionista
dell’essere umano. Il celebre colpo di scena finale fu ciò che rese notissimo
il film, a dispetto del romanzo che invece ambientava la narrazione su un
pianeta di un altro sistema stellare. Burton, trovandosi nel difficile compito
di ricreare lo stesso effetto di sorpresa che colpì gli spettatori del ’68,
si basa soprattutto sull’aspetto visivo dipingendo le scimmie in maniera
ancora più antropomorfa di quanto era stato fatto da Schaffer; il risultato –
al di là della superba qualità del trucco, che ovviamente supera il già
ragguardevole livello del suo predecessore – diviene però grottesco, portando
lo spettatore a sorridere piuttosto che a riflettere davanti a tali scene e non
riuscendo a cogliere in pieno l’identificazione tra l’umanità e la civiltà
delle scimmie. Il protagonista, il capitano Leo Davidson, non ha l’ingegnosità
omerica del personaggio che dovrebbe interpretare e la superiorità umana sembra
prevalere solo nel conflitto a campo aperto tra gli esuli umani e l’esercito
delle scimmie nella parte clou del film: un gravissimo errore, che porta lo
spettatore a vedere l’abilità umana sul solo piano bellico laddove la
versione di Schaffer aveva insita una potente carica pacifista. La piattezza dei
protagonisti, che a differenza dei remake prima citati non sono tratteggiati con
molta cura così da accentuare la valenza del soggetto e non
dell’interpretazione, non permette di affezionarsi a personaggi entrati nella
storia del cinema come Zira, Cornelius, il dottor Zaius e lo stesso protagonista
George Taylor interpretato da Heston. Non commuove l’animo dello spettatore né
il nuovo bacio tra l’uomo e la scimmia, che in Burton sembra essere solo un
omaggio forzato, né il nuovo colpo di scena finale che sembra solo
un’umoristica parodia della società odierna (l’America come “repubblica
delle banane”, se vogliamo) e non permette il collegamento tra la situazione
di oggi e quella del lontano futuro descritto nel film, provocata dall’uomo
stesso seconda l’interpretazione del film di Schaffer. Si perde insomma la
valenza critica e il terribile pugno allo stomaco che lo spettatore provava di
fronte alla Statua della Libertà distrutta e ritrovata da un annichilito
Charlton Heston. |
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