Prima
o poi tutti i registi, grandi e non, si confrontano con un classico d’altri
tempi, una sorta di sfida alle loro capacità artistiche. Il fenomeno del remake
non è una novità ma è di recente assurto a moda: che sia dovuto a un
legittimo desiderio di far appassionare i giovani spettatori ai vecchi film o
che la ragione vada piuttosto ricercata in un fisiologico calo di idee, fatto
sta che come tutte le mode anche i remake sono diventati un puro meccanismo
commerciale per fare molti soldi in breve tempo senza tirare fuori dal cilindro
una nuova idea ma sfruttando qualcosa di già ben collaudato. La fantascienza
non sfugge affatto a questo fenomeno e anzi sembra essere il campo più fertile.
La cosa parrebbe a prima vista una contraddizione: la fantascienza, per
definizione, non invecchia perché non è legata a situazioni contingenti ma
descrive il futuro o almeno una realtà che si discosta da quella in cui
viviamo. Tuttavia
ciò non è del tutto vero, basti pensare a un romanzo come L’invasione degli ultracorpi di Finney o a un film come Ultimatum
alla Terra di Wise per rendersi conto che la contemporaneità influenza non
poco la fantascienza, come tutta la letteratura e la cinematografia in generale.
Può essere quindi una buona idea tentare di “aggiornare” un film di
fantascienza per permetterne una rilettura alla luce di eventi odierni o uno
spostamento interpretativo in favore di un nuovo aspetto che oggi appare
maggiormente centrale, o più semplicemente per rinnovare le acconciature anni 60 dei protagonisti e i risibili effetti speciali e adeguarli a gusti più
moderni.
Eppure,
tutti coloro che hanno potuto vedere nei cinema il risultato di un simile
esperimento si ritroveranno concordi nell’esprimere quella che è
apparentemente una banalità ma che come tutte le banalità è certamente vera:
il remake non ha il fascino del film originale, è una sua pallida imitazione
quando non trascende nel tradimento del suo senso originario per prestarsi a una
mera operazione commerciale. La ragione potrebbe risiedere, per molti
nostalgici, nell’altrettanta banale verità che “non ci sono più i bei film
di una volta”; sarà però il caso di andare oltre i luoghi comuni e ragionare
sul fenomeno.
Un
caso emblematico può essere quello di The
Time Machine (2002), rifacimento del classico letterario di H.G. Wells e di
un piccolo gioiello del cinema di fantascienza dei primi anni 60 che in
Italia uscì col titolo L’uomo che visse
nel futuro. Quest’ultimo, diretto da George Pal, riprendeva il romanzo di
Wells e riusciva a trasporlo quasi alla perfezione, aggiornandolo con una bella
digressione nel breve futuro quando il protagonista, George (interpretato da Rod
Taylor), scienziato dell’Inghilterra tardo-vittoriana, si ritrova a vivere la
Prima, la Seconda e infine anche la Terza guerra mondiale assistendo alla
distruzione di Londra tramite armi atomiche. Nel romanzo wellsiano la critica,
pungente e dissacrante, verso la società del suo tempo, va interpretata alla
luce degli sconvolgimenti dell’epoca: Eloi e Morloch rappresentavano la
proiezione nel lontano futuro della divisione societaria in classi, che però al
di là delle apparenze risultava poi rovesciata, con i padroni immersi
nell’ozio ma vittime dei loro servi lavoratori che prima li rimpinzano e poi
li divorano. Nel film di Pal la divisione dell’umanità è frutto della guerra
termonucleare, ma il senso di fondo è lo stesso: l’uomo ha perso la propria
anima ingegnosa, buttando al vento millenni di evoluzione culturale e tornando
allo stadio bestiale a causa della sua volontà di potenza.
Nel remake
realizzato da Simon Wells, discendente dello scrittore inglese, tutto si sposta
sul piano personale: il protagonista, lo scienziato americano Alexander (la
Londra del romanzo si trasforma in una New York che sembra anticipare i deliri
steampunk de La leggenda degli uomini
straordinari) crea una macchina del tempo per salvare dalla morte la
fidanzata uccisa da un banale ladruncolo ma, giunto nel passato, scopre che gli
eventi non possono essere modificati e decide di recarsi nel futuro per scoprire
il perché, certo che la scienza si sarà evoluta al punto da dargli una
risposta. Anche qui il viaggio nel prossimo futuro segue le mode del momento:
non c’è più una guerra termonucleare ma una Luna che si disintegra e nei
musei del XXI secolo ci sono guide olografiche che ci assistono nel percorso.
|