Remake. Se la fantascienza guarda al passato di Roberto Paura

 

E poiché cambiano anche i parametri di bellezza, la Weena del film di Pal non si veste più come una casta signorina ma come un’avvenente modella dall’ombelico rigorosamente scoperto. C’è sempre la divisione della società in Eloi e Morloch, ma Simon Wells non sfugge alle tentazioni dicotomiche e quindi fa dei primi gli eroi e dei secondi i cattivi; diversamente dall’interpretazione originale, gli Eloi diventano qui intelligenti e lavoratori, vittime innocenti degli orrendi Morloch, laddove nel film di Pal entrambe le sottospecie testimoniano la caduta dell’uomo nella barbarie. Può essere originale il pretesto dell’amore perduto per reinventare la storia, ma con la cancellazione dell’ambiguità degli Eloi e del ruolo del viaggiatore del tempo nel costruire una società nuova e migliore il film perde ogni valenza sociale e si limita a una serie di scene vorticose e scenografie mozzafiato che però non stupiscono, dando la sensazione di inutilità.

Questo insistere sull’esplorazione del personaggio, segno forse di un cinema che ricorre alla psicologia per darsi spessore, è presente soprattutto nel Solaris di Steven Soderbergh (2002) a cui spetta l’impossibile compito di cimentarsi con due monumenti della fantascienza quali il romanzo di Stanislaw Lem e l’omonimo film di Tarkovskij del 1972. Lì il grande dilemma della storia - lo scontro tra ragione scientifica e ineffabilità della fede - era reso ancora più poetico dalle scelte registiche di Tarkovskij e il senso ultimo che Lem suggeriva era illustrato pienamente nei bei dialoghi e nelle ancor più belle scene “mute”. Soderbergh punta tutto sulla storia d’amore, che si sforza senza successo di rendere quanto più possibile lontana dai canoni. Lo stesso Soderbergh sottolinea come il film punti a comprendere il fallimento della relazione tra il protagonista, Chris, e la moglie misteriosamente rediviva sulla stazione di Solaris. Col risultato che, mentre in Tarkovskij il passato di Chris serviva a dare un senso alle vicende presenti e a comprendere il perché delle sue scelte su Solaris, nel remake l’incontro con la moglie morta sulla stazione orbitante serve solo da pretesto per comprendere il passato di Chris e il perché delle sue scelte precedenti, che avviene attraverso flash-back che vorrebbero aggiungere un quid a una storia che invece gira su se stessa senza darsi un senso. Soderbergh tenta infatti di mettere del suo, di dare un tocco personale al suo Solaris, ma senza rendersi conto di creare un prodotto convenzionale che non esce dagli schemi della fantascienza cinematografica degli ultimi anni, patinata e senz’anima. Anche Tarkovskij aveva ammesso che l’elemento fantascientifico era quello meno essenziale della storia, ma lui era riuscito a lasciare intatte le domande poste da Lem, quelle sul ruolo dell’uomo nell’universo, della disperata ricerca di un contatto con un’altra intelligenza che è in fin dei conti Dio, o meglio l’immagine di esso creata dall’uomo e dalla sua insicurezza. Soderbergh afferma che il suo Solaris non vuole avere un’unica chiave interpretativa, ma che lascia agli spettatori il conferimento di un significato; sono molto pochi, tuttavia, i significati da dare a un prodotto di piatta banalità che elimina la vecchia anima del film anteriore senza crearne una nuova. Gli altri due abitanti della stazione, Snaut e Sartorius (che qui diviene una donna, la dottoressa Gordon), che rappresentano le due opposte anime dell’uomo, quella razionale e quella illogica, in Soderbergh cedono ai luoghi comuni: il primo è un nerd schizzato che biascica filosofia da riviste alla moda, la seconda ciancia qualche tecnicismo senza convincere. Ci si chiede: perché scomodare Solaris per raccontare una storia d’amore così mediocre? Perché rimuovere i grandi temi esistenziali della storia originale per puntare i riflettori sulla vicenda personale del protagonista che non assume senso nel momento in cui si conclude con un finale che vorrebbe dire qualcosa ma che non ha né la significativa incompiutezza del romanzo né la sublimità onirica del film di Tarkovskij?

La stessa domanda va posta a pieno titolo per una vera delusione d’autore, uno dei remake più attesi della storia del cinema, quello della Guerra dei Mondi (2005) di Steven Spielberg che senza troppi complimenti sradica la vicenda dal suo contesto originale dell’Inghilterra ottocentesca e la ripianta nell’abusatissima America della middle town senza età. Chiariamoci: era già stato fatto con la prima trasposizione cinematografica dell’opera, quella del 1952 di Byron Haskin che, oltre a esibire effetti speciali per l’epoca all’avanguardia, allineò la storia di Wells agli schemi dei disaster movie creando un cult per il pubblico di allora che oggi appare piuttosto kitsch. Spielberg si compiace di riprende de La Guerra dei Mondi proprio l’impostazione di Haskin: se allora l’invasione aliena era l’ennesima metafora nemmeno tanto celata della cospirazione sovietica in terra americana, oggi i malvagi extraterrestri “che erano già tra noi” sono i terroristi islamici che operano nell’ombra e contro i quali nessun uomo può fare nulla. Ecco quindi che va sparendo il senso del romanzo, quello della piccolezza della civiltà umana che si pavoneggia nella propria superiorità riflessa ma che è poi salvata dal disastro alieno solo grazie a un insignificante bacillo.

 

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