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poiché cambiano anche i parametri di bellezza, la Weena del film di Pal non si
veste più come una casta
signorina ma come un’avvenente modella
dall’ombelico rigorosamente scoperto. C’è sempre la divisione della società
in Eloi e Morloch, ma Simon Wells non sfugge alle tentazioni dicotomiche e
quindi fa dei primi gli eroi e dei secondi i cattivi; diversamente
dall’interpretazione originale, gli Eloi diventano qui intelligenti e
lavoratori, vittime innocenti degli orrendi Morloch, laddove nel film di Pal
entrambe le sottospecie testimoniano la caduta dell’uomo nella barbarie. Può
essere originale il pretesto dell’amore perduto per reinventare la storia, ma
con la cancellazione dell’ambiguità degli Eloi e del ruolo del viaggiatore
del tempo nel costruire una società nuova e migliore il film perde ogni valenza
sociale e si limita a una serie di scene vorticose e scenografie mozzafiato che
però non stupiscono, dando la sensazione di inutilità. Questo
insistere sull’esplorazione del personaggio, segno forse di un cinema che
ricorre alla psicologia per darsi spessore, è presente soprattutto nel Solaris
di Steven Soderbergh (2002) a cui spetta l’impossibile compito di cimentarsi
con due monumenti della fantascienza quali il romanzo di Stanislaw Lem e
l’omonimo film di Tarkovskij del 1972. Lì il grande dilemma della storia - lo
scontro tra ragione scientifica e ineffabilità della fede - era reso ancora più
poetico dalle scelte registiche di Tarkovskij e il senso ultimo che Lem
suggeriva era illustrato pienamente nei bei dialoghi e nelle ancor più belle
scene “mute”. Soderbergh punta tutto sulla storia d’amore, che si sforza
senza successo di rendere quanto più possibile lontana dai canoni. Lo stesso
Soderbergh sottolinea come il film punti a comprendere il fallimento della
relazione tra il protagonista, Chris, e la moglie misteriosamente rediviva sulla
stazione di Solaris. Col risultato che, mentre in Tarkovskij il passato di Chris
serviva a dare un senso alle vicende presenti e a comprendere il perché delle
sue scelte su Solaris, nel remake l’incontro con la moglie morta sulla
stazione orbitante serve solo da pretesto per comprendere il passato di Chris e
il perché delle sue scelte precedenti, che avviene attraverso flash-back che
vorrebbero aggiungere un quid a una
storia che invece gira su se stessa senza darsi un senso. Soderbergh tenta
infatti di mettere del suo, di dare un tocco personale al suo Solaris, ma senza rendersi conto di creare un prodotto convenzionale
che non esce dagli schemi della fantascienza cinematografica degli ultimi anni,
patinata e senz’anima. Anche Tarkovskij aveva ammesso che l’elemento
fantascientifico era quello meno essenziale della storia, ma lui era riuscito a
lasciare intatte le domande poste da Lem, quelle sul ruolo dell’uomo
nell’universo, della disperata ricerca di un contatto con un’altra
intelligenza che è in fin dei conti Dio, o meglio l’immagine di esso creata
dall’uomo e dalla sua insicurezza. Soderbergh afferma che il suo Solaris non vuole avere un’unica chiave interpretativa, ma che
lascia agli spettatori il conferimento di un significato; sono molto pochi,
tuttavia, i significati da dare a un prodotto di piatta banalità che elimina la
vecchia anima del film anteriore senza crearne una nuova. Gli altri due abitanti
della stazione, Snaut e Sartorius (che qui diviene una donna, la dottoressa
Gordon), che rappresentano le due opposte anime dell’uomo, quella razionale e
quella illogica, in Soderbergh cedono ai luoghi comuni: il primo è un nerd
schizzato che biascica filosofia da riviste alla moda, la seconda ciancia
qualche tecnicismo senza convincere. Ci si chiede: perché scomodare Solaris
per raccontare una storia d’amore così mediocre? Perché rimuovere i grandi
temi esistenziali della storia originale per puntare i riflettori sulla vicenda
personale del protagonista che non assume senso nel momento in cui si conclude
con un finale che vorrebbe dire qualcosa ma che non ha né la significativa
incompiutezza del romanzo né la sublimità onirica del film di Tarkovskij? La stessa domanda va posta a pieno titolo per una vera delusione d’autore, uno dei remake più attesi della storia del cinema, quello della Guerra dei Mondi (2005) di Steven Spielberg che senza troppi complimenti sradica la vicenda dal suo contesto originale dell’Inghilterra ottocentesca e la ripianta nell’abusatissima America della middle town senza età. Chiariamoci: era già stato fatto con la prima trasposizione cinematografica dell’opera, quella del 1952 di Byron Haskin che, oltre a esibire effetti speciali per l’epoca all’avanguardia, allineò la storia di Wells agli schemi dei disaster movie creando un cult per il pubblico di allora che oggi appare piuttosto kitsch. Spielberg si compiace di riprende de La Guerra dei Mondi proprio l’impostazione di Haskin: se allora l’invasione aliena era l’ennesima metafora nemmeno tanto celata della cospirazione sovietica in terra americana, oggi i malvagi extraterrestri “che erano già tra noi” sono i terroristi islamici che operano nell’ombra e contro i quali nessun uomo può fare nulla. Ecco quindi che va sparendo il senso del romanzo, quello della piccolezza della civiltà umana che si pavoneggia nella propria superiorità riflessa ma che è poi salvata dal disastro alieno solo grazie a un insignificante bacillo.
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