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Al 12° minuto Nannetti mi ha convinto: non ci sta comunicando pensieri suoi, ma notizie che gli sono giunte dal Sistema Telepatico. A me non sembrano affatto strane, ed anzi vorrei incoraggiarlo a proseguire nella sua intercettazione di onde radio e tv dal Monte Forestal.
Al 13° minuto sospetto che l’intonaco del padiglione Ferri contenga ancora molte zone inesplorate. Ci sono tracce che l’obiettivo dell’Hasselblad ha messo a fuoco, ma non ha potuto mettere in correlazione tra loro. Un’opera pensata e scolpita nell’arco di nove anni andrebbe considerata anche come stratificazione di idee nel tempo. Non basta rintracciare l’ordine cronologico delle pagine per capire il flusso magnetico-catotico che guidava Nannetti. Ci vorrebbe un rabdomante per intercettare i percorsi sotterranei, fatti di punti sensibili che si richiamano ciclicamente. Ci vorrebbe un informatico per riscrivere l’ipertesto che ti fa rimbalzare da una parte all’altra del muro, come il delay che si applicava alla voce dei cantanti di rock&roll negli anni ‘50. Al 14° minuto penso che mi piacerebbe lavorare su questi testi, sono così musicali, così zappiani, che li potrebbe cantare Picchio dal Pozzo. E nessuno si stupirebbe. Al 15° minuto sono giunto alla convinzione che Nannetti ha scritto il libretto per un’Opera fantastica, che aspetta solo di essere musicata. Ma chi mai potrebbe affrontare testi del genere senza rischiare il ridicolo? Mi viene in mente il Battiato dei primi dischi. Forse l’unico. Certo che Demetrio sarebbe stato perfetto. Al 16° minuto sto già pensando, in termini teatrali, ad un importante occasione di ritorno alle origini per Picchio dal Pozzo. Un nuovo giro di jazz acrobatico, con testi senza compromessi, con nuove musiche, nuovi musicisti, un coro, ed un supporto video. Certamente un impegno ambizioso, soprattutto dopo 25 anni di silenzio, ma varrebbe la pena tentare, adesso o mai più. Al 17° minuto… le stelle si alzano e discendono nell’aria… Al 18° minuto ormai ho deciso: scriverò un’Opera su testi di N.O.F.4. Al 19° minuto ho già voglia di mettermi al lavoro, di cominciare le ricerche, di buttar giù appunti. Fortunatamente ho un Mac sempre acceso a casa che che mi aspetta, un faro che mi indica la via del ritorno, nel caso la mia Vespa del ‘79 si spegnesse. E’ mezzanotte. Sto percorrendo il primo miglio della mia nuova vita. Sono l’uomo invisibile armato con fibbia catotica.
Soltanto un anno dopo. Ho trovato disponibilità e collaborazione in tutte le persone che ho conosciuto. Ognuno aveva qualcosa da raccontare. Ho registrato tutto. Fotografato e filmato tutto. Non solo l’immenso graffito, purtroppo in stato di abbandono, ma anche gli interni scoperchiati del padiglione Ferri. Le grandi camerate e le cellette di contenzione. L’infermeria e le cucine. Ho registrato il rumore delle fronde in quel cortile-museo. Ho trovato e filmato la sua tomba, quasi a volermi accertare che Nannetti sia veramente esistito. Ho scoperto i disegni del suo ultimo periodo, mille fogli A4 riempiti fitti fitti a biro nera, conservati in un armadietto insieme con le sue cartelle cliniche. Ho scoperto che decorò anche il corrimano di una scala lunga oltre cento metri, poi demolita per fare posto al campo sportivo. Sono andato a trovare l’infermiere (già intervistato nel cortometraggio) e l’ho convinto a riprendere la trascrizione integrale dei graffiti, che poi ho avuto modo di correggere ed integrare, anche grazie alle preziose foto di Pier Nello Manoni. Ho intervistato il Prof. Biasci, lo psichiatra che finalmente lo rese libero di uscire dal manicomio, e l’inserviente che bruciò i disegni il giorno stesso della sua morte (quelli rimasti sono delle fotocopie). Erano gli unici effetti personali che possedeva, ma non si conosceva alcun parente a cui consegnarli. Sono stato nello studio dello scultore Mino Trafeli, che scoprì per primo i graffiti e pubblicò l’unico libro che li documenta.
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