Il cinema come parametro centrale per comprendere il ‘900 e la
maturazione della Modernità e gli altri suoi elementi fondanti,
come i processi di secolarizzazione e la metropoli. Ma poi
ancora la letteratura e la letterarietà, la
televisione, il digitale,
la Rete,
sono i temi dell’ultimo lavoro di Alberto Abruzzese.
Argomenti
trattati in passato ampiamente, ma che in L’occhio di Joker
vengono rivisitati e risistemati in maniera strutturata e
sintetica.
Non
perdono però di sistematicità, anzi, forse proprio in questo
libro raggiungono una dimensione definitivamente organizzata in
maniera tale da fare un punto organico sulla ricerca e le tesi
attorno alle quali il sociologo romano lavora ormai da più di
trent’anni.
E da
questo punto di vista i simboli scelti per far parlare la teoria
e l’immaginario – il Joker simbolo delle istanze del disordine,
e il suo avversario, Batman, dalla parte dell’ordine –
funzionano benissimo per far risaltare la dimensione
contraddittoria e conflittuale intrinseca nello sviluppo della
società di massa, dell’immaginario collettivo, delle forme che
hanno fatto da basi dei loro apparati: la metropoli,
appunto, ma affianco a questa la fabbrica, quindi l’industria,
il capitale (come fa anche Sergio Brancato, uno dei suoi
allievi, in La città delle luci, pubblicato sempre da
Carocci nel 2003 e di recente ristampato).
Riferimento – quello ai due personaggi dei fumetti – che trova
per certi versi un riscontro storico nelle figure di Mesmer e di
Bentham, dell’utopia della comunicazione e della presunzione del
controllo totale, per ricondurci al doppio movimento costituito
dalla dialettica di reti e flussi comunicativi e di primato
della visione.
Lateralmente a questi argomenti, è impossibile all’autore non
richiamare lo spirito di fondo degli apparati della cultura
ufficiale, della Accademia, da sempre e tuttora
spocchiosa nei confronti dei fenomeni e delle forme di
espressione della cultura di massa, perché arroccata su
posizioni di presunto privilegio analitico, ma sostanzialmente
incapace (solo per pigrizia?) di accogliere come oggetto di
studio e comprendere questi fenomeni e queste tecnologie.
Abruzzese
coglie ad esempio nel segno – anche se pare farlo en passant
– quando nota come ci sia un atteggiamento di fondo teso a
privilegiare e nobilitare sempre le forme e le tecnologie
dell’espressione precedenti – che diventano così classiche
– rispetto alle successive: è successo con la letteratura
verso il teatro, con quella e con questo verso il cinema, con
tutti (con qualche riserva sul cinema) rispetto alla televisione
e al computer.
Mentre è
proprio grazie al digitale – e al suo sempre più
indispensabile corollario: internet – che è possibile non
solo immaginare, ma sperimentare quotidianamente la possibilità
di integrazione di tutte le forme e di tutte le tecnologie
espressive finora sviluppate dall’umanità: immagine, scrittura,
suono.
Una
integrazione delle tecnologie dell’espressione che agisce
direttamente non solo sulle modalità della “costruzione sociale
della realtà” nella postmodernità, ma anche sulla stessa
definizione del Soggetto tardomoderno. Dimensione questa,
che è nei fatti quella in cui si svolge la nostra vita
quotidiana.
Le
implicazioni di questo ragionamento sono rintracciabili e
riconoscibili nelle prime pagine del libro, dove lo studioso si
sofferma – forse per la prima volta in maniera esplicita – sul
tema della formazione. Ribadendo come il termine si
riferisca all’intera sfera dell’educazione, della
socializzazione dell’individuo, Abruzzese afferma come
questa ormai sia decisamente e definitivamente nelle mani non
solo della scuola, ma prima di tutto della televisione, di
internet, delle forme che la pubblicità produce e esprime.
Abruzzese
qui capitalizza un vantaggio: quello di aver fatto oggetto della
sua ricerca proprio gli apparati e i materiali che ritiene
essere gli agenti fondamentali della formazione attuale. E ha
condotto la sua ricerca proprio con coloro che ne sono i
destinatari: le “nuove” generazioni da trent’anni ad oggi.
D’altra
parte, la stessa ricerca ha valore quando è attenta al e nutrita
dal processo reale. In questo caso, dalla continua verifica che
viene dal rapporto con coloro cui si rivolge e con cui si
conduce: in questo caso, i propri studenti, i propri allievi.
Emerge
forse qui anche la preoccupazione – prima di tutto etica – di
chi sente sempre più urgenti le sfide poste dall’epoca in cui
viviamo (quel “Mi devo sbrigare” che apre il volume), e nutre
una più che giustificata sfiducia per le istituzioni educative e
culturali con cui ci troviamo a convivere.
Da parte
nostra, gli auguriamo – ci auguriamo – che abbia ancora tempo in
abbondanza, per procedere con la consueta sagacia e
determinazione, pur attraverso la disattenzione e il
disinteresse di tanti, nel suo lavoro, così da nutrire ancora la
nostra curiosità e la nostra ricerca.
E
rimanendo sempre un passo avanti agli altri.