Louis-Ferdinand Céline, in quel suo libro che viene
universalmente riconosciuto come uno dei più grandi romanzi
del Novecento, sostiene che noi esseri umani, per quanto
ci affanniamo rincorrendo ognuno il proprio ideale, la propria
vocazione (ossia quelle cose che tali definiamo), o per quanto stiamo
anche soltanto fermi a non far nulla, non siamo null’altro
che un “ammasso di trippe tiepide e corrotte”
(Céline, 1992), materia organica il cui scopo più
intimo è dimostrare il marcio, normalizzare una teratologia
fatta teoria generalizzata del sociale, insomma. Charles Bukowski, che
a Céline riconosce un debito umano e letterario, nella
sbornia infinita e reiterata che è la sua produzione
narrativa sembra adeguarsi costantemente all’adagio del
francese. Tra i suoi tanti racconti, fotogrammi del film di un continuo
declino urbano, declino costante dell’Occidente
più genuino, Bukowski non manca di insistere in
continuazione sulla corruzione delle nostre trippe, rilanciando
però in prima persona con le suppurazioni dei suoi stessi
umori fradici e prendendo perciò la situazione di petto,
senza perdersi nelle chiacchiere o nelle mansuete pratiche
dell’obbedienza. Le trippe, già corrotte di loro,
che lo siano ancora di più. Tanto adeguarsi al mondo non
è che questo, prendere coscienza della corruzione e
corrompersi in prima persona; perché, altrimenti, starsene
buoni a far finta di niente, rimpolpando le schiere di chi non accetta
la sua natura nel vano tentativo di lustrarsi l’anima,
è impresa inutile o quantomeno noiosa.
Così
in Animali in libertà, uno dei racconti
che popolano la raccolta del 1967 di Storie di ordinaria
follia (Bukowski, 1996), in cui la corruzione tocca il
parossismo (in Bukowski solo uno dei tanti momenti in cui
ciò accade, a dire il vero); e non tanto perché
avvenga chissà quale esplosione orgiastica e alcolica di
umori umidicci e sfregamenti pubici, quanto perché gli
uomini, quelli che stanno tutt’intorno al solito protagonista
beone e scriteriato, restano costantemente altri indeterminati:
“loro”. E il mondo, che a questi uomini appartiene,
è anch’esso altro, chiuso fuori
dall’unica anima buona (forse come la parte caritatevole
della Lola di Bardamu nel romanzo di Céline), per quanto
bizzarra, che accoglierà l’uomo dedito
all’annichilamento, che vorrà caricarsi sul
garrese l’impudicizia vuota e perduta degli altri, di
“loro”, per riuscire a passare oltre.
Ero reduce da una lunga catena di sbornie, durante la quale m’ero giocato l’impiego, la camera d’affitto e (forse) il cervello. Quella notte dormii in un vicolo. Mi svegliai col sole, vomitai, attesi cinque minuti, poi scolai quel che restava d’una bottiglia di vino che m’era rimasta accanto. Mi misi a camminare per le strade della città, senza meta. Quando camminavo, mi pareva di riuscir ad afferrare parte del significato delle cose. Naturalmente, non era così. Ma non è che a star fermo andasse meglio (ibidem).
Nulla di troppo originale, l’incipit. Si direbbe una situazione abbastanza comune ai racconti di Bukowski, questo è vero, reiterata in una serie di vicoli dell’eterna canicola dell’estate californiana, e ripetuta in forza di una pletora eterogenea di bottiglie e di mal di testa da disidratazione. Ma non è dell’originalità che qui si vuol parlare. Sicché, nel suo mesto ed errabondo perdersi alla deriva del mondo urbano, questo nostro protagonista abbandona il centro cittadino, poi le periferie, per arrivare ansimante ed assetato nelle campagne che circondano la sua città. Bussa a più porte, chiede solo dell’acqua, per non morire di sete che altrimenti sarebbe quanto mai seccante; in effetti ci sono modi assai migliori per congedarsi da questo mondo. Nessuno gli dà udienza. Soltanto una ventenne mezza toccata dai capelli rossi, Carol, Crazy Carol. È lei l’unica ad accoglierlo in casa, riservandogli ben più che un semplice beveraggio.
La donna tornò col bicchier d’acqua, me lo porse.
“Mi chiamo Carol,” mi disse.
“Io Gordon,” dissi. “Ma poco importa.”
“Perché non importa?”
“Per me, è la fine. Sono finito. Mi spiego?”
“Cos’è stato? L’alcol?”
“L’alcol,” risposi e, facendo un gesto verso l’esterno, soggiunsi: “e loro.”
“Anch’io ho i miei guai con ‘loro’. Sono sola” (ibidem).
Carol, a dir la verità, non è
esattamente sola. Con lei vivono decine e decine di bestie, animali
mansueti: un tigre, un orango, un serpente, un procione, un pappagallo
e tanti altri, tutti maschi però. Come fosse una pittoresca
versione femminile di Noè, versione garbatamente occidentale
e secolarizzata, Carol accoglie tra le mura di casa ogni bestia, per
prenderne il meglio, letteralmente, e per rimetterlo così al
mondo avendo la certezza che questo stesso mondo, per come lo
conosciamo, è cosa che durerà ancora ben poco.
“Loro”, gli altri, quelli che si trovano fuori e
che affollano le strade e i palazzi, lo stanno distruggendo, e Carol lo
sa, ne ha la certezza; per di più ha la certezza che questa
fine è prossima, rapida a venire.
Sicché
nella sua casa chiusa al fuori, a “loro”, Crazy
Carol, ogni sera da chissà quanto tempo, allarga le gambe
per accogliere nel suo corpo latteo una di queste bestie, per farsi
ingravidare da ognuna (senza naturalmente lesinare sui piaceri zoofili
del sesso, già che c’è; soprattutto col
tigre Dopey Joe, com’è facile supporre),
shakerandone lo sperma all’interno dell’utero, che
è la sua Arca: il luogo sicuro che da cui
scaturirà l’essere eclettico –
“intollerabile, Uomo e Superuomo, Superuomo e
Superbestia” (ibidem) – che
sfuggirà all’imminente apocalisse e che
ripopolerà il mondo insieme ad altri suoi simili che, Carol
ne è convinta, altre donne come lei stanno preparando in
giro per la Terra. Così Gordon, ospitato in quella casa, non
è altro che l’ultima bestia necessaria al progetto
di Crazy Carol, Carol la Matta. Gordon: mansueto come gli altri
animali, disprezzato da “loro” che stanno fuori
come lo sono gli altri animali (che verranno uccisi in massa, in
un’esecuzione sommaria, poco prima delle fine), accomodante
come lo sono gli altri animali, senza memoria né proiezione
futura come lo sono gli altri animali – cioè
capace di una sorta di sbiadito oblio nietzschiano, per intenderci
(Nietzsche, 2001), in un azzardato parallelismo che ci è
concesso dall’accostamento bukowskiano tra Superuomo e
Superbestia. Soltanto Gordon, a differenza degli altri animali,
è capace di formalizzare il pensiero, è
cioè dotato di parola (ad esclusione del pappagallo,
chiaramente).
Così, nell’ultima pagina di
Animali in libertà, mentre in un reparto
d’ostetricia un’infermiera incredula mostra al
nostro Gordon suo figlio appena nato (che è il figlio del
tigre, del procione, del serpente eccetera), “la prima bomba
all’idrogeno (cade) su san Francisco” (ibidem).
È proprio in questo modo che termina il racconto, con la
fine accennata del mondo conosciuto.
Eccola, l’apocalisse, proprio al volgere ultimo della nostra storia, al termine della notte, concomitante con la nascita della bestia che è uomo, dell’uomo che è bestia. Tuttavia, a ben vedere, il compimento del racconto può essere anche un altro. E il nostro Gordon, di questo finale alternativo della sua storia, se ne accorge appena prima della fine globale (anche se d’altronde se n’era accorto già all’inizio), quando si trova di fronte una sala di infanti, di disgraziati appena venuti al mondo, al di là dell’apocalisse che verrà subito dopo, soltanto per soffrire: il compimento è immanente e personale, dunque. Così non è più il conclusivo tripudio di bombe all’idrogeno che ci interessa, che interessa allo stesso Bukowski, quella è una fine troppo classica, non molto avvincente per la verità; d’altronde parlarne è come parlare di niente. L’apocalisse che ci interessa è invece quella privata, di ogni singolo uomo. Al cospetto della sala di neonati, infatti, il quadro che si trova davanti Gordon, ubriacone scriteriato, è semplice, immediato.
Ci saranno stati un centinaio di neonati, che urlavano. Li udivo attraverso il vetro. Senza tregua. Nasci piangendo. La nascita. E poi la morte. A ognuno tocca. Entriamo dentro soli e usciamo fuori soli. E molti di noi, la maggior parte, viviamo soli, spaventati, vite incomplete. Una tristezza senza pari discese su di me. A veder tutta quella carne appena nata che doveva morire. A osservare tutta quella vita che si sarebbe a poco a poco trasformata in odio, in demenza, in nevrosi, in stupidità, in terrore, in omicidio, e infine in nulla… nulla in vita e nulla in morte (ibidem).
Eccoci davanti alla vera apocalisse, quella che, a ben vedere,
sta prima dell’apocalisse stessa, prima della catastrofe
ecumenica che sconvolgerà flora e fauna, storia e religione.
La vera apocalisse è il vero annichilamento, tutto qui:
è il nulla. Perché non è la fine a
rendere apocalittico il quadro che stiamo guardando (o dipingendo, fate
voi), non è l’elargizione generosa di esplosioni
che si immagina dopo il finale (e che lo stesso Bukowski, a scanso di
equivoci, non ci descrive). È invece il quotidiano a farlo
nella sua secchezza disarmante. L’apocalisse è un
fatto privato, una cosa che ogni disgraziato che viene al mondo
piangendo ha già dentro, e su questo né Gordon
né Carol né noi né voi possiamo farci
niente. Ogni disgraziato, che non è altro se non
“un ammasso di trippe tiepide e corrotte” come si
ricordava con Céline, viene al mondo per stare da solo, per
esperire giorno per giorno la sua apocalisse privata. Si può
dire che la solitudine, in tal modo, è un fatto costitutivo
dell’umano descritto dai nostri autori, una disposizione che
vede in sé la fine, al di là del sensazionalismo
della catastrofe, del fuoco purificatore che viene dall’alto,
del lavaggio universale delle acque, dell’ingordigia di lupi
celestiali e di serpi abissali o semplicemente di quella nemesi
nucleare che più si adegua ai tempi in cui scrive Bukowski.
Come quelle esperienze di stato di assedio descritte dalla psichiatria
fenomenologica (Piro, 2005) che rinchiudono certi sofferenti in una
tensione costante verso il mondo che sta fuori dando loro la
possibilità di muoversi soltanto all’interno di
una stretta trincea; oppure come quegli altri psicotici raccontati da
Franco Rella (1984), incapaci di uscire dal proprio stesso labirinto
perché ogni sua uscita riporta nuovamente dentro. Labirinto
che poi è nient’altro che l’angusta
trincea; labirinto che è la vita, assedio che è
la vita.
Così, adeguandoci a questo discorso, e
volendo continuare sulle sue note, potremmo trovare molti altri esempi
di apocalisse privata nella produzione di Bukowski; su tutti, quello
che letterariamente forse (almeno per noi) supera tutti gli altri in
forza e disperazione, Un dollaro e venti centesimi,
il gioiello più prezioso di quell’altra raccolta, Compagno
di sbronze (2003), che tra i sedici e i vent’anni
ci ha fatto innamorare tutti di Bukowski.
L’apocalisse,
in questa misura antropologica che stiamo rintracciando, misura che
è tipica del nostro tempo e delle nostre geografie, siamo
d’accordo, non termina mai, poiché comincia appena
nati, come in quella sala di ostetricia. Tuttavia, senza recuperare
argomentazioni buffe come la post-modernità, il
frazionamento dell’identità,
l’incapacità di riconoscere il sé (si
sappia perdonare la resa minuscola) o la chiusura ipertrofica dello
spazio individuale che accompagna l’abbandono della
dimensione comunitaria della convivenza, resti la solitudine, la si
faccia brillare per quello che è.
“Per me, è la fine. Sono finito. Mi spiego?”.
LETTURE
— Céline Louis-Ferdinand, Viaggio al termine della notte, Corbaccio, Milano, 1992.
— Bukowski Charles, Storie di ordinaria follia, Feltrinelli, Milano, 1996.
— Bukowski Charles, Compagno di sbronze, Feltrinelli, Milano, 2003.
— Nietzsche Friedrich, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Adelphi, Milano, 2001.
— Piro Sergio, Trattato della ricerca diadromico-trasformazionale, La città del sole, Napoli, 2005.
— Rella Franco, Metamorfosi. Immagini del pensiero, Feltrinelli, Milano, 1984.