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“L’umanità ha una possibilità su due di non sopravvivere al XXI secolo”. Parole del genere non sono state pronunciate da un fantasioso esegeta di Nostradamus ma da un eminente fisico e cosmologo inglese, Lord Martin Rees, astronomo reale a Greenwich, in un libro di qualche anno fa con un titolo piuttosto eloquente: Il secolo finale (2003). Rees può essere considerato un pessimista, ma in questi ultimi anni scanditi dal countdown della falsa profezia apocalittica attribuita ai Maya non è stato l’unico uomo di scienza a domandarsi se davvero il nostro mondo non sia destinato a scomparire nell’arco di un paio di generazioni, o poco più. Un’ansia millenaria ben diversa da quella che accomuna profeti di sventura, predicatori fondamentalisti, catastrofisti di ogni schiatta e conduttori televisivi con la sindrome dell’audience. Qui non si tratta infatti di giocare, come faceva Isaac Newton, con la cronologia della Bibbia, per indovinare quando l’Onnipotente deciderà di farla finita e mandarci tutti negli spogliatoi. E nemmeno, come in film di fantascienza come Armageddon (1998), cercare di indovinare quando ci cadrà addosso il prossimo meteorite di livello estintivo. Si tratta piuttosto di avere a che fare con quello che, per usare il linguaggio astratto della scienza, si chiama “rischio estintivo”, rischio strettamente connesso con i pericoli derivanti dallo sviluppo tumultuoso della nostra società. Secondo Martin Rees, infatti, non sarà né Dio né il cattivo asteroide (o cometa che sia) a suonare il gong dell’apocalisse, ma l’uomo stesso: estremo caso di profezia che si auto-avvera, la fine del mondo tanto temuta sembra dipendere solo da noi stessi.
Questo filone degli “studi apocalittici” è cominciato a emergere tra la fine degli anni Settanta e la metà degli Ottanta. 
Mentre nei decenni immediatamente precedenti la paura maggiore era quella connessa al ticchettare del Doomsday Clock, l’orologio dell’apocalisse del Bulletin of the Atomic Scientists, che spostava le lancette più vicine o più lontane dalla mezzanotte del mondo a seconda del rischio nucleare (cfr. www.quadernidaltritempi.eu/numero40), l’emergere della coscienza ambientalista nella generazione post-sessantottina fece scoprire il fenomeno del buco nell’ozono. L’idea che il deodorante spruzzato sotto le ascelle potesse contribuire alla distruzione della nostra difesa naturale dalla doccia letale dei raggi cosmici e ultravioletti scatenò la fantasia dei teorici del caos, che iniziarono a chiedersi quanto fragile e interdipendente fosse davvero il sistema-mondo in cui viviamo. Si scoprì così che il battito delle ali di una farfalla a Pechino era sufficiente a scatenare un uragano sulla costa est degli Stati Uniti. E che, immettendo milioni di tonnellate di anidride carbonica e altri gas serra nell’atmosfera, l’Occidente industrializzato stava facendo qualcosa di ben più pericoloso dello sbattere delle ali di una farfalla. La dinamica complessa e non-lineare dell’atmosfera, strapazzata dai gas di scarico dello sviluppo umano, stava iniziando a ribellarsi, come annunciava nel 1979 il nascente guru dell’ambientalismo John Lovelock in Gaia. A New Look at Life of Earth (Lovelock, 2011). 

 

Quando, nel 1983, l’astronomo Carl Sagan pubblicò il primo articolo scientifico sulle conseguenze di una guerra atomica su larga scala usando la definizione “inverno nucleare”, le paure della Guerra fredda esemplificate da un film come Il dottor Stranamore (Kubrick, 2010) si saldarono con gli incubi ambientalisti. L’estinzione di buona parte della razza umana, preconizza Sagan sulla solida scorta di calcoli e modelli, non sarà prodotta tanto dalle vittime dirette delle esplosioni delle bombe e dal silenzioso e invisibile diffondersi delle radiazioni, quanto dalle carestie che si verificheranno negli anni successivi a causa del globale abbassamento delle temperature prodotto dalla polvere proiettata nella stratosfera dalle esplosioni. Ceneri, frammenti, schegge e quant’altro, in quantità sufficiente a riflettere la luce del Sole riducendo il riscaldamento della Terra e distruggendo interi raccolti. “I vivi invidieranno i morti”, scriveva Herman Kahn in un suo rapporto della fine degli anni Cinquanta poi ampliato in un libro di grande impatto sull’opinione pubblica (Kahn, 1960). 
A partire dagli anni Novanta, la fine della Guerra fredda ha fatto tramontare più o meno definitivamente (fatta eccezione per le retoriche sugli stati-canaglia) l’ipotesi di una guerra nucleare. Ma allo stesso tempo, i sempre più solidi rapporti riguardo un aumento mai registrato a memoria d’uomo e di serie storiche del livello di anidride carbonica in atmosfera e delle temperature medie registrate cominciarono a sollevare un nuovo scenario di tipo apocalittico, nel quale l’Uomo tornava a giocare un ruolo decisivo: anziché paventare una mini-era glaciale prodotta dall’armageddon nucleare, lo scenario del cambiamento climatico profetizza un generalizzato riscaldamento globale con un peggioramento costante della situazione nel corso dei decenni fino ad arrivare a un quadro di livello catastrofico, con il sollevamento dei mari e degli oceani, l’allagamento delle città costiere, la scomparsa dei ghiacciai al Polo Nord, la desertificazione dell’Europa meridionale e via discorrendo, intorno al 2100. 
Nel 1995 il film Waterworld (Reynolds, 2004), con Kevin Costner, ambientato nel XXV secolo, immagina un mondo quasi completamente sommerso dall’acqua, indugiando sulle spettacolari scene di una New York leggendaria perduta sotto l’oceano. Nel 2007 il Doomsday Clock viene spostato di qualche minuto verso la mezzanotte anche per i rischi prodotti dal cambiamento climatico, rendendo evidente il collegamento tra la sindrome nucleare e quella del riscaldamento globale. Quell’anno, il quinto rapporto dell’IPCC, l’International Panel on Climate Change, istituito dall’ONU per monitorare la situazione del mutamento climatico, giunge ad affermare che entro il 2035 i ghiacciai dell’Everest si sarebbero sciolti. Una stima da far tremare i polsi e che fa discutere per i due anni successivi intere comunità di scienziati, finché l’IPCC è costretto a far marcia indietro sostenendo che l’eventualità sia fisicamente impossibile, nella situazione attuale, pur ribadendo una significativa riduzione dei ghiacciai sul tetto del mondo per quella data.

 

Per gli economisti Gianluca Comin e Donato Speroni, la “Grande Crisi” arriverà anche prima. In 2030. La tempesta perfetta (Comin e Speroni, 2012) gli autori sostengono che intorno a quella data una serie di tendenze estremamente pericolose attualmente in corso – la crisi energetica, il cambiamento climatico, la sovrappopolazione, la penuria d’acqua e cibo – culmineranno in una situazione catastrofica che metterà a serio rischio la sopravvivenza della civiltà. “Ce la faremo?”, si chiedono al termine del loro libro. “In tutta onestà non siamo in grado di prevederlo: le incognite sono tante. D’altra parte non sappiamo neppure con esattezza in quali tempi e con quali modalità la «tempesta perfetta» ci investirà. I nuvoloni neri però invadono l’orizzonte”. Per molti altri, il problema dipende invece dall’impossibilità di fare previsioni. La profonda interdipendenza della nostra civiltà ci pone in una condizione di estrema vulnerabilità. In una situazione del genere, anche un evento di portata minima e imprevedibile, un “evento X”, può mandare tutto a rotoli. 
Il matematico John Casti, nel suo Eventi X (2012), sostiene appunto questa tesi. Lo sfacelo delle grandi civiltà del passato è, a suo dire, complessivamente attribuibile al fatto che queste divennero incapaci di gestire la loro crescente complessità, che a un certo punto giunge a un momento in cui il sistema diventa ingovernabile e collassa. E certo un mondo con sette miliardi di abitanti e una crescente interdipendenza non è quel che si dice un sistema semplice: il battito d’ali della summenzionata farfalla può scatenare un uragano come Katrina, con danni incalcolabili.
Secondo il filosofo di Oxford Nick Bostrom, “i rischi esistenziali maggiori sulla scala temporale di un paio di secoli o giù di lì sembrano essere quelli che derivano dalle attività di civiltà tecnologicamente avanzate” (2002). Non è un caso che, insieme a Martin Rees, Bostrom sia tra i fondatori del Center for the Study of Existential Risks all’Università di Oxford, le cui maggiori preoccupazioni consistono nell’analizzare la possibilità che lo sviluppo incontrollato di intelligenze artificiali e nanorobot possa in futuro finire per sovvertire il dominio dell’Uomo sulla Terra. Sembra un plot uscito da un romanzo di fantascienza (infatti i giornalisti lo hanno ribattezzato subito il “centro Terminator”), ma Bostrom e Rees non sono i soli a credere che l’avvento di una singolarità tecnologica, l’estasi dei nerd transumanisti in cui i computer diventano più intelligenti degli uomini (vedi “Quaderni d’Altri Tempi” n. 16, www.quadernidaltritempi.eu/numero16), non sia necessariamente un bene. La data-chiave, almeno prestando ascolto al guru della singolarità, Ray Kurzweil, recentemente diventato tra i top consultant di Google, è il 2045.
Uno dei ragionamenti filosofici più bizzarri riguardo l’imminente fine dell’antropocene è attribuito al cosmologo di Cambridge Brandon Carter, pioniere del principio antropico, quello secondo cui l’universo è così perché se fosse diverso noi non saremmo qui a parlarne. Nel 1983, in una conferenza alla Royal Society a Londra, presentò la seguente argomentazione. Se sommiamo tutti gli esseri umani vissuti sulla Terra, calcoliamo un totale approssimativo di 70 miliardi di uomini. È evidente quindi che circa il 10% di tutti gli uomini vissuti sulla Terra è vivo attualmente. Quanti esseri umani vivranno nel futuro? Secondo Carter, non più di altri 30-40 miliardi. Quindi, siamo vicini alla fine. Il perché è presto detto: immaginate di avere davanti due scatole chiuse. In ognuna ci sono dei biglietti con dei numeri: nella prima ci sono solo dieci bigliettini numerati da 1 a 10; nella seconda ce ne sono mille numerati da 1 a 1000. Viene estratto un numero, è il 7. Penserete subito che è stato estratto dalla prima scatola, perché è davvero improbabile che su mille numeri possiate estrarne uno tanto basso. L’analogia si applica anche al numero di esseri viventi: se l’umanità avesse davanti a sé centinaia di migliaia di anni di esistenza, il totale di esseri umani potrebbe arrivare a 100.000 miliardi e oltre. Il fatto di essere compresi tra i primi 70 è, statisticamente parlando, alquanto singolare. Se invece nella storia umana ci saranno solo 100 miliardi di esseri umani, essere tra i primi 70 avrebbe più senso. Avremmo passato la metà e ci troveremmo in una posizione statisticamente plausibile.

 

Il ragionamento appare davvero bislacco. “Quando ho sentito il ragionamento di Carter sull’apocalisse per la prima volta”, racconta Martin Rees “mi è venuta in mente una secca battuta con cui George Orwell aveva commentato un contesto diverso: «Devi essere un vero intellettuale per crederci: nessuna persona normale potrebbe essere così sciocca»” (Rees, 2003). In fin dei conti, quando il vincitore della lotteria nazionale scopre che il biglietto estratto è proprio il suo, potrebbe giudicare il tutto molto improbabile e credere che vi sia qualcosa sotto, al di là del semplice caso. Il filosofo della scienza Telmo Pievani ha sollevato questa contro-argomentazione: “Un Homo sapiens di Cro-Magnon nell’Europa paleolitica avrebbe potuto giungere alle stesse pessimistiche conclusioni applicando le stime di Carter, ma si sarebbe sbagliato di grosso visto che aveva davanti a sé almeno altri 30 mila anni di evoluzione umana” (2012).  
Quello che però è più frustrante è il fatto che, se anche gli scenari peggiori dovessero avverarsi, il mondo continuerebbe a girare indifferente. È quel che ha sottolineato il giornalista Alan Weisman in un libro che in breve ha ottenuto un clamoroso successo, dando vita anche a un documentario di History Channel, dal titolo Il mondo senza di noi (Weisman, 2008, cfr. www.quadernidaltritempi.eu/numero14). L’immagine di copertina, la Statua della Libertà sepolta da centinaia di metri di neve, fa l’occhiolino a uno dei più famosi blockbuster hollywoodiani sul cambiamento climatico, L’alba del giorno dopo di Roland Emmerich (Emmerich, 2011) nel quale invece di un riscaldamento globale il mondo finisce per fare i conti con un’improvvisa era glaciale che, anziché impiegare anni, fa capolino nel giro di un paio di giorni. A prescindere dal modo in cui l’umanità potrebbe estinguersi fino all’ultimo uomo, Weisman immagina cosa accadrebbe ai manufatti della nostra civiltà. Lo scenario è sconfortante: senza manutenzione, le grandi metropoli in cui la maggior parte di noi vive finirebbero per collassare nel giro di giorni. I cunicoli delle metropolitane finirebbero allagati in due o tre giorni, i canali di scolo si otturerebbero, e la nostra civiltà finirebbe così erosa dalle fondamenta. Quello che resterebbe sarebbe il mare di plastica che abbiamo prodotto, di cui ignoriamo la capacità di sopravvivenza alla biodegradabilità; le scorie radioattive accumulate in decenni di fissione nucleare, che rimarrebbero attive per migliaia e in alcuni casi per milioni di anni; e probabilmente, estremo omaggio all’orgoglio a stelle e strisce, i volti dei Presidenti scolpiti sul Monte Rushmore. 
Weisman utilizza la consulenza di scienziati e futurologi per speculare su quello che gli scrittori di fantascienza di solito ipotizzano attraverso la loro immaginazione: ma gli scenari grosso modo combaciano. Quello che ci secca ammettere, leggendo il saggio di Weisman, è che il resto del mondo potrebbe non accorgersi nemmeno della nostra scomparsa e anzi beneficiarne come la grande compagine dei mammiferi – incluso l’Uomo – ha beneficiato della scomparsa dei dinosauri nell’ultima estinzione di massa. Ci piace definire la nostra epoca “antropocene” (Crutzen, 2005) una sorta di nuova era geologica in cui il nostro mondo è entrato a forza di pedate, perché l’umanità, pur nel breve battito di ciglia della sua esistenza, è già riuscita a imprimere segni indelebili negli strati geologici della Terra. Se scomparissimo domani, dei grattacieli e delle statue forse non resterebbe nulla: ma extraterrestri scesi sul nostro pianeta potrebbero scoprire che per un breve periodo abbiamo giocato con l’energia atomica a suon di esperimenti nel deserto e su atolli sperduti nell’oceano perché negli strati geologici di quel periodo vi sono concentrazioni oltre la media di isotopi radioattivi. La fine del mondo di cui ci si riempie tanto la bocca, allora, sarà semplicemente la fine dell’antropocene. Lo diceva anche Ian Malcolm, l’eccentrico matematico inventato da Michael Crichton nel best-seller Jurassic Park (1990): il buco nell’ozono, le catastrofi provenienti dal cielo, persino l’armageddon nucleare, non metterebbero fine alla vita sulla Terra, ma chiuderebbero semplicemente la parabola breve e intensa dell’homo sapiens. “Il pianeta non è in pericolo. Noi siamo in pericolo. Non abbiamo il potere di distruggere il pianeta, o di salvarlo. Ma abbiamo il potere di salvare noi stessi”, Chrichton fa dire a Malcolm. Tutto ciò, scrive Telmo Pievani, è un’evidenza “piuttosto sgradevole per il narcisismo antropocentrico” (Pievani, 2012). Vorremmo che con Sansone muoiano anche tutti i Filistei, ma invece “se anche fossimo così miopi da mettere a repentaglio le condizioni della nostra permanenza sul pianeta e segassimo da soli il ramoscello del cespuglio evolutivo delle scimmie antropomorfe sul quale siamo appollaiati, i modelli scientifici ci dicono che la vita andrebbe avanti comunque sotto altre forme… La nostra fine, tanto più stupida quanto più ci definiamo sapiens, sarebbe soltanto un altro inizio”(ibidem).

 


 

LETTURE

Bostrom Nick, Existential Risks. Analyzing Human Extinction Scenarios and Related Hazards,
in “Journal of Evolution and Technology”, vol. 9, n. 1, Trinity College, Hartford, Connecticut, 2002.
Casti John, Eventi X, il Saggiatore, Milano, 2012.
Crichton Michael, Jurassic Park, Garzanti, Milano, 1990.
Comin Gianluca e Speroni Donato, 2030. La tempesta perfetta, Rizzoli, Milano, 2012.
Crutzen Paul, Benvenuti nell’Antropocene, Mondadori, Milano, 2005.
Kahn Herman, On Thermonuclear War, Princeton University Press, Princeton, 1960.
Lovelock John, Gaia. Nuove idee sull’ecologia, Bollati Boringhieri, Torino, 2011.
Pievani Telmo, La fine del mondo. Guida per apocalittici perplessi, il Mulino, Bologna, 2012.
Rees Martin, Il secolo finale, Mondadori, Milano, 2003.
Sagan Carl, The Atmospheric and Climatic Consequences of Nuclear War, www.mindfully.org, 1983.
Weisman Alan, Il mondo senza di noi, Einaudi, Torino, 2008.

 


 

VISIONI

Bay Michael, Armageddon. Giudizio finale, Walt Disney Studios Home Entertainment, 2001.
Emmerich Roland, The Day After Tomorrow – L’alba del giorno dopo, 20th Century Fox Home Entertainment, 2011.
Kubrick Stanley, Il dottor Stranamore, Columbia Tristar, 2011.
Reynolds Kevin, Waterworld, Universal Pictures, 2004.