L’etichetta
Vertigo ve la ricordate? Quella con le sontuose copertine
apribili e le foto esoteriche di Marcus Keef che raffiguravano
un’allucinata campagna inglese, popolata da splendide e
inquietanti ragazze dai capelli lunghi. Quella, soprattutto, del
vortice (swirl) bianconero che marchiava il centro del vinile,
inventato dal cover designer Roger Dean. Beh, è tornata a
luccicare negli scaffali di negozietti e bancarelle di dischi.
No, non si tratta di un’allucinazione dovuta al presunto effetto
psichedelico del vinile “spiralato” in perenne rotazione sui
giradischi dell’epoca.
Il ritorno
dell’etichetta progressive per antonomasia, quella che ha
lanciato gente come Black Sabbath, Gentle Giant, Uriah Heep,
Nucleus e Colosseum (solo per citare i complessi più popolari),
si deve a un’azzeccata operazione di marketing orchestrata dalla
tentacolare Universal che ha confezionato un ricco cofanetto
(Time Machine – A Vertigo Retrospective) con oltre tre ore e
mezza di musica e un libretto farcito di biografie, foto e
interviste dei gruppi più rappresentativi della prima e più
fertile stagione della Vertigo, quella che va da 1969 al 1973.
Una ghiotta occasione per rinfrescarsi la memoria e ripercorrere
l’avventura di una label che sin dalla sua nascita, siamo
nell’autunno del 1969, assume subito un’identità di culto e
viene osannata da International Times, organo della
controcultura d’oltremanica.
Nonostante
l’etichetta non possa vantare, come ad esempio la Island di
Chris Blackwell, una matrice indipendente (Vertigo nasce come
marchio satellite del gruppo Philips), si afferma agli inizi
degli anni Settanta grazie all’indovinata combinazione di due
fattori: il packaging – le copertine apribili davano la
possibilità al fotografo Marcus Keef di lavorare con un formato
rettangolare e realizzare veri e propri scenari cinematografici
– e il sound, allora, di frontiera. Il management – all’inizio
sotto la guida dell’illuminato Olav Wyper (poi artefice
dell’ancora più oscura Neon, figlia minore della major Rca) –
gioca subito la carta dell’eclettismo, accogliendo gruppi e
artisti assolutamente sconosciuti (molti al loro primo contratto
discografico) e provenienti dalle esperienze musicali più
disparate: folk, hard rock, jazz, blues ecc.
Tutto viene
frullato da uno staff che lavora come una vera indie, spaziando
dall’afrosound degli Assagai alla protofusion dei Ben, dal blues
jazzato dei Patto allo psych-rock dei Gracious! Con risultati
non sempre, come dire, perfetti. La patente di artista o di
gruppo underground non era di per sé garanzia di un buon
prodotto, artisticamente parlando. A volte, la stessa label ci
metteva lo zampino con iperproduzioni che zavorravano le già
pesanti miscele progressive con cascate di riff ultrablues e
interminabili fughe di mellotron. L’idea del “famolo strano” a
tutti i costi, dunque, non sempre funzionava. Anzi a volte
faceva colpo più il contenitore del contenuto. Si spiega anche
così il flop di combo misteriosi come i Dr.Z che con il loro
Three parts to my soul che vendettero meno di 200 copie. O le
apparizioni, davvero fugaci, dei misteriosi Ramases, il cui
leader Martin Raphael si credeva la reincarnazione dell’omonimo
famoso faraone.