A passo di gambero

di Umberto Eco

Bompiani

pagg. 349

€ 17.50

 





 
A passo di gambero - Guerre Calde e populismo mediatico
di
Umberto Eco


In indubbia sintonia con il tempo veloce, anche se da un punto di vista più lineare, gli scritti raccolti da Umberto Eco nel suo ultimo volume, valgono a ulteriore dimostrazione di come la tarda modernità finalmente cominci a riflettere sui tempi che la hanno introdotta e prodotta. Anzi, il grande merito del semiologo italiano è stato quello di rifletterci per così dire in corso d’opera, mentre gli eventi accadevano – per poi riunirli in volume e mostrarci come questa epoca possa già ampiamente ragionare su se stessa, superando quella difficoltà intrinseca nella distanza che si crea sempre tra l’evento e l’esperienza (e quindi l’analisi) dell’evento stesso.

Eco sostiene che la storia appare tornare indietro – e in questo si colloca, seppur in maniera più colloquiale, nella stessa direzione del Baudrillard di L’illusione della fine – come ci mostra il ritorno di servitori di colore nelle nostre case, il rilancio delle crociate, il ritorno a carte geografiche simili a quelle del 1914.

Quello che emerge, dallo sguardo di un osservatore acuto e in diretta, è un mondo che rischia di avvitarsi su se stesso, costretto a riprodursi quasi per clonazione, con le sue disparità e differenze, malamente nascoste sotto una patina di splendore e benessere – come se non fossimo, tutti, testimoni quotidiani del degrado della vita quotidiana e dell’abdicazione all’intelligenza.

Ma fa anche di più: ci illustra – raccogliendo insieme scritti apparsi in successione nell’arco di circa cinque anni – come il disegno per la definizione di una Realtà Integrale (quella di cui parla Baudrillard) su scala mondiale si sia riproposto nel nostro paese su un piano per così dire provinciale, attraverso il tentativo di instaurazione di una vera e propria dittatura mediatica. Un'altra approssimazione allo scenario di L’uomo in fuga.

Eco, dopo aver citato Conan Doyle a proposito della guerra in Afghanistan (con un omaggio alla capacità della cultura di massa di rappresentare il mondo), non può evitare di richiamare il “Grande Gioco”, il gioco delle spie: definitiva affermazione del raddoppiamento delle cose: una realtà dichiarata, esposta al consumo di tutti, una realtà nascosta, sotterranea, quella delle grandi manovre internazionali, quella del Potere e della guerra, come in Lord of the War.[1] Il richiamo – seppur episodico – ad uno dei fondatori immaginari della moderna indagine poliziesca, Sherlock Holmes, ci dice ancora di più: Conan Doyle, con Edgar Allan Poe uno dei fondatori della narrativa seriale, prefigura, la capacità della tecnologia di radicalizzare la ricerca sulla gestione dell’informazione.

 

[1] A. Niccol, Lord of the War, USA, 2005.


 

Recensione di Adolfo Fattori