L’anima nell’epoca della sua appagabilità tecnica di Gennaro Fucile

 


Ogni racconto di marca muove queste pedine secondo una logica combinatoria, variando le proporzioni, sottraendo/aggiungendo, oltrepassando i moduli obsoleti, ritornando su quelli mandati in pensione, aggiornando il vocabolario, il look e soprattutto i nemici. La fantascienza usa e illustra alla perfezione questo dispositivo, basterebbe pensare a Superman, all’equipaggio dell’Enterprise, oppure in letteratura a Conan (per la precisione, campione del sottogenere heroic fantasy) e ai robot di Isaac Asimov. Coca-Cola o Mulino Bianco, Perlana o Dash, ogni marca agisce nell’immaginario dei consumatori come questi personaggi, ma nessuno meglio di James Bond ne incarna l’essenza. Non esiste eroe/prodotto cinematografico seriale paragonabile a 007, perché Bond come ogni marca di prestigio, permuta da oltre venti film (inclusi gli apocrifi come Casino Royale) gli elementi del discorso con un perfetto dosaggio. Bond è tutto, come l’Ubik di Philip K. Dick, senza tempo, metafisico spray o quello che si vuole.

Il nome dell’agente segreto racconta molto in proposito. Bond è legame, servitù, impegno, al suo estremo verbale troviamo bondage. Chi ha a che fare con 007 si trova dentro una relazione stretta intimamente. Il legame tra marca e consumatore (almeno quello sempre inseguito e auspicato dagli attori del mercato) ha una natura simile.

L’eroe cinematografico seriale per eccellenza ne cela il segreto agire. Bond è un kolossal spot di Bond, anche il merchandising, i musei, le musiche, le collezioni ne fanno il prototipo e il punto d’arrivo al tempo stesso di ogni marca, sia precedente che successiva al suo avvento. Bond, inoltre, non dimentichiamolo, è anche il primo e forse ancora unico personaggio di fantascienza creato direttamente su pellicola. Sebbene preceduto dalle storie di Ian Fleming, diventa “autentico” solo trasposto sullo schermo.

Altro passaggio: se il racconto di matrice fantascientifica rispecchia l’immaginario hi-tech del lettore, si nutre dei suoi desideri, a quale immaginario si riferisce la finzione di marca?

Le aziende tutte, indiscriminatamente, rispondono: a quello che si origina dai bisogni in senso lato dei consumatori. In realtà, il procedimento è esattamente il contrario. Non esiste nessun immaginario del consumi, il consumatore è una finzione, una figura della letteratura sociologica, il suo immaginario è costruito su modelli di simulazione, è il precipitato a valle dell’ideologia delle imprese.

Naturalmente tutti consumiamo, adoperiamo/trasformiamo materie prime e manufatti e nel farlo plasmiamo il nostro inconscio producendo innumerevoli forme. Altro, invece, è la supponenza di qualsiasi impresa di volere conoscere l’anima di ogni singolo individuo, ma l’impresa (è il caso di dirlo) è realizzabile con un’abile mistificazione. Io impresa immagino – ricorrendo a frammenti di realtà, a campioni statistici, a sondaggi - un possibile desiderio e/o un probabile problema e lo autentico nel momento stesso in cui produco la risposta a questa ipotetica domanda.

Schematizzando: desidero venderti X, immagino che tu lo desideri, immagino il tuo desiderio, adeguo X. Una volta modificato è diventato Y, io non ti vendo X (che volevo venderti/importi) ma Y che tu desideri e posso riprodurre in serie questa logica. Non è tutto.

Spostiamoci nel tempo e nello spazio, voliamo sul Forbidden Planet e ripensiamo a Robby, il robot sempliciotto nella forma, ma estremamente sofisticato come concetto. Che cosa è in realtà Robby? La società dei consumi. Chiedi un pranzo e te lo cucina, chiedi da bere e ti disseta, il suo ventre contiene tutto il consumabile (alimentare e bevande), da ventre a ventre, legame viscerale con il consumatore, quello originario: offrire il maggior numero di prodotti da un lato e, dall’altro, saziare la fame atavica che ha assillato gran parte dell’umanità da sempre.

 

 

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