Gran parte delle discussioni sul presente e sul futuro
religioso dell’umanità vertono, da un paio di secoli ormai,
intorno alla stessa domanda: Dio è veramente morto o il
religioso continua a permeare le convinzioni e il mondo
della vita degli individui?
E continueremo a sentire assertori convinti di una tesi,
così come dell’altra, fin quando non ci si renderà conto che la
questione, in questi termini, è mal posta, per il semplice
motivo che sono indiscutibilmente veri entrambi i fatti! È
persino banale la constatazione della diminuzione
«dell’influenza organizzatrice del religioso nella vita delle
società» – in senso anche propriamente politico – da un lato, e,
allo stesso tempo, la permanenza – se non una vera e propria
reviviscenza periodica e congiunturale – della fede, dall’altro
lato. È fuor di dubbio che le società tradizionali, quelle
autenticamente religiose, a differenza di quelle odierne,
percepivano la vita e la loro organizzazione sociale (ecco la
dimensione politica) come fondate da principi e leggi esterne
all’uomo, da un ordine ricevuto e trascendente al quale si
sottomettevano. È questa la caratteristica che può definire
l’essenza storica della religione come eteronoma: tutte
le regole e le norme che tengono assieme i membri di quelle
società vengono dal di fuori e da prima di loro, da un
altrove. Laddove l’indipendenza organizzativa dalla
religione delle moderne società occidentali, la libertà e
l’autonomia dei loro attori sociali sono, allo stesso modo, dati
di fatto.
I problemi, nonché il grado di interesse della faccenda,
aumentano quando dal piano puramente descrittivo si passa a
quello analitico. Ed è su questo che Luc Ferry e Marcel Gauchet,
due tra i più raffinati intellettuali francesi contemporanei, la
cui fama oltrepassa di gran lunga i confini della loro patria,
danno vita a un dibattito che, nel suo complesso, rimette in
questione, facendo poi ordine, le categorie e i concetti con i
quali si è storicamente guardato ai fenomeni religiosi. Le
posizioni di fondo dei due autori sono meno distanti di quanto
possa sembrare a prima vista; stante un accordo pressoché totale
sui fenomeni osservati, le differenze riguardano soprattutto le
interpretazioni fornite e derivano per lo più dai diversi
approcci impiegati e dalle prospettive entro cui i due si
collocano (più storico-descrittiva quella di Gauchet, più
filosofica quella di Ferry).
Allora il problema, come dicevamo, può essere posto in
maniera più pertinente nel modo seguente: cosa sussiste della
religiosità nell’epoca del declino sociale della religione?
Quanto spazio, ma soprattutto quale ruolo, può avere la
religione nelle società laicizzate e, weberianamente, ad uno
stadio avanzato di de-magizzazione (Entzauberung)? In
altre parole, non è tanto rilevante sapere se le persone credano
o no in Dio, quanto piuttosto chiedersi quali siano l’origine dei
loro altrettanto innegabili slanci verso il trascendente, il
sacro, il numinoso e il posto che la loro fede occupa
nell’orizzonte del quotidiano, dato che anche il più fervente
dei credenti non crede più in un ordine naturale delle cose, in
una scaturigine divina delle istituzioni e può essere per ciò
considerato laico.
Ferry argomenta un eterno bisogno di religione da parte
degli uomini, una sorta di necessità metafisica che può assumere
le forme più svariate e manifestarsi attraverso adorazioni di
varia natura. Ciò che era trascendente, a suo dire, diventa
immanente attraverso una divinizzazione dell’umano e una
umanizzazione del divino, rientrando così nell’orizzonte delle
esperienze vissute, l’Erlebnis nel senso introdotto
soprattutto da Husserl.
Gauchet, dal canto suo, pur rifiutando l’idea secondo la
quale l’essere umano tende a divinizzare per una sua
inclinazione naturale le forze che lo dominano, essendo la
religione «un fatto di istituzione», una scelta umana,
una risposta a motivi politici e sociali ben determinati,
ammette che «ci deve pur essere qualcosa come un sostrato
antropologico a partire dal quale l’esperienza umana può
istituirsi e definirsi sotto il segno della religione», qualcosa
che somigli a un “dato” immediato della coscienza.
È proprio per queste considerazioni – insieme al fatto che
nessuna morale laica è in grado di dare risposte a tutta una
serie di domande esistenziali legate alla condizione umana (ad
esempio, perché invecchiamo? Come educare i figli? Come gestire
un lutto? Come combattere la banalità del quotidiano?) – che il
religioso non potrà mai sparire del tutto.
In definitiva, data la personalizzazione e
l’individualizzazione dei culti e delle credenze, potremmo dire
che Dio non è morto; né tanto meno si è nascosto per capire se
c’è chi lo cerchi ancora – come qualcuno ha sostenuto. È stato
semplicemente “dislocato”, sottratto alla sfera pubblica e
sociale e condotto nel focolare privato di ogni singolo credente
– del resto, la sua ubiquità glielo consente!