Quello in India non è l’unico
tuo viaggio verso Est e qui ritorniamo a Paolini, allo spettacolo il Milione.
Qui la realtà di partenza è il testo di Marco
Polo, che è, però,
trasfigurazione di viaggi reali, su cui riscrive la finzione narrativa
della messa in scena di Paolini. In questo scivolamento tra finzioni e
realtà dei testi, dove guarda la
macchina da presa? La
macchina da presa è accanto all’attore, molto
vicina in questo caso
proprio sulla stessa barca (un burcio veneziano) ad immaginarsi viaggi
da questo piccolo palco-ormeggiato. A volte il viaggio diventa reale
anche se vicino, nelle barene o nella vegetazione bassa nella Laguna
veneta o lontano nel deserto tunisino tra le dune o vicino ad un fuoco
di cammellieri. È quindi un guardare un
po’ strabico vicino e lontano
al tempo stresso…
Nel tuo diario di viaggio c’è
anche l’incontro con un apolide per eccellenza, Alejandro
Jodorowsky… Invitato
da alcuni amici che lavorano per la Feltrinelli, ho osservato
Jodorowsky per la prima volta mentre faceva delle letture collettive
dei tarocchi e così ho voluto parlarci e rendere disponibile
questa sua
conversazione in un video divenuto poi un DVD. Mi ha colpito il fatto
che non voleva predire il futuro, piuttosto trovare gli elementi per
capire la tua storia, da dove venivi. Lui, dopo aver conosciuto i
surrealisti, la patafisica, lavorato con il teatro, il fumetto, e aver
creato film indimenticabili (La montagna incantata, El
topo) oggi pratica l’arte per guarire. Mi sembra
davvero un ottima missione.
Nei tuoi appunti di lavoro per gli Album,
citi anche il maestro Alberto Manzi (l’indimenticabile di Non
è mai troppo tardi),
e in fondo il tuo lavoro sull’immagine è
costellato di segni, tracce di
una manualità che si ostina a resistere in piena epoca
elettronica.
Quanto, quindi, hanno modificato/semplificato il tuo lavoro sulle
immagini le nuove tecnologie digitali? Hanno in qualche modo
anche
modificato la tua sensibilità? In quel
caso pensavo alla
semplicità e alla bellezza di un segno bianco fatto col
gesso su una
lavagna nera.
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A proposito, le lavagne restano ancora oggi nelle scuole
gli strumenti tecnologici che non ti abbandonano nei momenti difficili
se devi fare uno schema o ingrandire un numero o parola e forse i meno
inquinanti. Collage, murales, serigrafie, erano tecniche che amavo
molto nei miei anni di liceo artistico e sono state preziose per vari
scopi, anche per quella che allora chiamavamo
“controinformazione”
hanno influenzato, ovviamente il linguaggio che prediligo. Le nuove
tecnologie ci costringono a continui
“aggiornamenti”, ad utilizzare
termini di cui spesso ignoriamo il significato. Il tempo (e la spesa)
che si dedica a questo tipo di aggiornamento è molto alto
per i reali
vantaggi che ci vengono offerti e va a togliere a quello da dedicare al
pensare al fare. Certo non posso ignorarle e in alcuni casi
rendono
più semplici ed efficaci alcune operazioni. Non credo che
finora
abbiano modificato la mia sensibilità. E mi piace utilizzare
ancora
macchine da presa che hanno quasi la mia età. Trovo utile
anche a
livello formativo, data la mia attività di insegnante, non
dimenticare
da dove veniamo e quindi non dare per scontato quello che oggi
tecnicamente sembra così facile da ottenere. Mi piace citare
il titolo
di un libro Verità a bassissima definizione
di Ruggero Pierantoni (biofisico e ricercatore di neuroscienze), che
riassume e chiarisce questa mia riflessione. Quali sono, per concludere, i tuoi progetti in corso
e futuri? Sto lavorando per una proiezione (30
novembre 2008, ndr)
nella serata conclusiva di Filmaker, un lavoro a quattro mani con
Roberto Nanni, un caro amico e filmaker con cui condivido una certa
visione del cinema. Intrecceremo alcuni nostri materiali inediti senza
gerarchie, speriamo possa assomigliare ad un concerto jazz per
immagini. Poi sto preparando ed iniziando a girare un lavoro a partire
da una fotografia scattata nel 1964 qui a Milano, nel quartiere di
Brera, dove sono nato. Un modo per ricordare anche a chi non
c’era
ancora, ai più giovani, com’era in quegli anni
quel quartiere, i suoi
abitanti e frequentatori a come era diversa la
città…prima degli
“Happy hour” (!). |