Nonaah
di Roscoe Mitchell
Opera assai spigolosa questa. Originariamente era un doppio ellepì. Viene ora ristampato su due cd che includono cinque bonus per un totale di oltre mezzora in più da un concerto in solo tenuto da Mitchell a Berkeley e dal quale era stato incluso solo Improvisation 1 nell’edizione originale. Vi ritroviamo Off Five Dark Six, presente nella scaletta dell’edizione su vinile in una versione con Anthony Braxton. Parlare dell’album, però, è soprattutto soffermarsi sulla title track, Nonaah, un chiodo fisso di Mitchell, che comparve per la prima volta nel Fanfare For The Warriors (Atlantic, 1974) dell’Art Ensemble Of Chicago e in due versioni nel The Roscoe Mitchel Solo Saxophone Concerts (Sackville, 1974). Qui Mitchell vi incluse tre versioni, di cui due in solitudine e una con Joseph Jarman, Wallace McMillan e Henry Threadgill, ovvero un quartetto di contralti. In Nonaah è riassunta alla perfezione quella caratteristica trance catatonica di Mitchell. Lui era sempre stato l’angolo deforme dell’AEOC, utilizzava note sfiatate, frasette sceme, insulse, ripetute ossessivamente, suoni spuntati, tutti scarti che nessuno si sarebbe sognato di adoperare. Situazioni esangui seguite da ruggenti esplosioni. La prima Nonaah in solo rende appieno il concetto di idea fissa: un estenuante insistere una frase con minime alterazioni di timbro o di altezza per decine di volte. Altrettanto inquietante è la terza versione in quartetto, aperta con un intreccio di quattro riffs in 5/4 che progressivamente scivola verso l’implosione totale. La seconda è un incandescente frammento registrato a Willisau. Mitchell è implacabile nel suo scavare dentro la più piccola cellula sonora anche quando si trova tra le mani un bel tema di Jarman, Erika, giocata su arpeggi discendenti di settima. Il pezzo ne esce alla fine del trattamento completamente dilaniato. Alla costruzione di questo monolite sonoro parteciparono anche Malachi Favors in un duo che risulta tra le cose più ancorate alla realtà (lo si ascolta in A1 TAL 2LA) e Muhal Richard Abrams e George Lewis nel trio che esegue la fantasmatica Tahquemenon. Gennaro Fucile |
di Roscoe Mitchell
titolo Nonaah
etichetta Nessa
distribuzione Ird
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The New Year
di
The New Year
Nel 1994 i fratelli Matt e Bubba Kadane formano i Bedhead, e il post-rock trova subito un riferimento di spessore. Canzoni come More Than Ever presentano da subito un nuovo modo di intendere la delicatezza dei sussurri. Dal 2001, anno di pubblicazione di Newness Ends, i Bedhead si trasformano in The New Year, gruppo che di nuovo, rispetto al passato, ha solo il nome. Oggi esce l’album omonimo, terzo lavoro della band con la nuova etichetta (Touch&Go) e il nuovo nome. Ma quello che c’era nei Bedhead, non è assolutamente andato perduto. I fratelli Kadane non hanno cambiato idea sulla loro musica. Proseguono lenti, approfonditi e trascinati si direbbe. Per di più adesso con loro c’è anche Chris Brokaw, che porta con sé il mesto bagaglio dei Codeine, i maestri del primo slow-core. E il progetto appartiene ancora alla sensibilità malinconica che contraddistingue un genere. La voce soffice si stende sui ricercati tappeti delle chitarre o del piano (come in Body and Soul), talvolta la batteria tenta di velocizzare il moto, in The Door Opens per esempio, ma è perlopiù apparenza, o una fascinazione momentanea. Certo, The New Year non è un disco per chi cerca l’ipertrofia del movimento, e nemmeno per chi cede all’identità bellezza-gioia. C’è bisogno di essere avvezzi all’introspezione e al senso magro delle nostalgie per apprezzare quest’album. È un disco che si ascolta guardando attraverso un vetro bagnato dalla pioggia, è un magone accennato che passa per l’esofago, ma che lo fa con garbo e silenziosamente, come le corde delle chitarre che approcciano piano all’ascolto, fino ad uscire dalle corde della gola, questa volta, in una profonda confessione fatta a capo chino. Livio Santoro |
di The New Year
titolo The New Year
etichetta Touch&Go
distribuzione Self
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Chromatic Tunes
di Magnetic Sound Machine
Questi motivi cromatici ci rimandano a una stagione che non c’è più. Quella dei Perigeo e dei loro album più acclamati, Geneaologia e La Valle dei Templi. Ma, niente paura, il sound dei Magnetic Sound Machine, va ben oltre la mera celebrazione di antichi fasti, e si distingue per una freschezza invidiabile e un savoir faire da rodati session men. In realtà, si tratta quasi di una teenager band, tutti all’incirca sui vent’anni all’epoca della registrazione, che dopo un album autoprodotto (Elements del 2006) si sono gettati coraggiosamente nella mischia discografica con un lavoro strumentale ricco di fascino. A cominciare dalla traccia Chromatic Tunes che apre la tracklist, un jazz rock spigliato punteggiato da una ritmica spumeggiante e da cambiamenti di tempo sottolineati dal sound cristallino delle tastiere elettriche di Alessandro Caldato. Altrettanto convincente è Bubble Trouble, il brano più complesso di tutto il lavoro (presente anche in una versione alternata, battezzata concept take), dove il clima muta: non solo fusion, ma passaggi quasi onirici con segreteria telefonica, rumori e risate sovraincisi a dare una connotazione più “umana” a una musica che forse risente in alcuni passaggi di una mancanza di pathos. Qui è in bella evidenza anche il flauto di Andrea Massarotto che ricorda le incursioni pop ricche di suggestioni funky e jazzy di gruppi come i Camel, in particolare quelli di A Live Record e di Rain Dances. Claudio Bonomi |
di Magnetic Sound Machine
titolo Chromatic Tunes
etichetta Lizard Records
distribuzione propria (www.lizardrecords.it)
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