Sono le cose della vita, gli oggetti su ogni tavolo,
perché tutti amiamo e (in qualche modo) tradiamo, ci
ammaliamo e (in qualche modo) guariamo, abbiamo nostalgie e desideri
(una Nostalgia o un Desiderio), cose che ricordiamo e cose che
dimentichiamo (per lo più le dis-posizioni biologiche
precedenti –vedi ne La separazione dai figli,
a pagina 65). Le cose delle vita
è più semplicemente recensibile riflettendone la
struttura generale, poiché sarebbe arduo e lungo rifletterne
ogni sottordine, ogni cosa della vita, come pure il
testo meriterebbe. E, d’altronde, riflettere solo
qualcuna di queste cose potrebbe creare un disequilibrio recensivo tra
ordini e sottordini. Però va detto almeno che i capitoli 6 (La
malattia e il dramma), 7 (La morte che fa parte
della vita), ed 8 (Il malinteso) sono il
vero cuore “tecnico” del volume. Questi capitoli
costituiscono autentici strumenti di lavoro per ogni psichista, ne
orientano l’inclinazione dello sguardo. Il capitolo 6
chiarisce, una volta di più, come la psicosomatica non
può che fare riferimento ad una teoria psicodinamica della
personalità. Nel capitolo 7 risuonano tutti i precedenti
studi sul costo dell’elusione (e del fraintendimento) della
Morte, nel Mondo e nella clinica. Il capitolo 8 ribadisce la misura in
cui, nella vita e nella clinica, quasi tutto è questione di
Linguaggio e di Filtri Personali (occhiali indossati). Il capitolo
successivo (9, Il cammino di ritorno alla salute)
sta alla terapia come i precedenti alla malattia;
l’undicesimo (Il recupero della voglia)
è tutto di taglio psicosomatologico e regala straordinarie,
utilissime “suggestioni” a questi tipi di
“addetti” ai lavori. Dicevamo che Chiozza
è troppo laico per qualunque finalistica prescrizione di
istruzioni per la vita. Questa affermazione può sembrare
contraddittoria, almeno con riferimento all’ultimo capitolo,
il quattordicesimo, titolato Sui modi buoni e cattivi di
vivere la vita. In effetti si tratterrebbe addirittura di un
Decalogo, Il decalogo del marinaio, ma si tratta
solo delle pagine ultime, si tratta solo delle
ultime 13 pagine (su 300), e scaturiscono in modo così
naturale dalle precedenti da essere quasi una sorta di loro implicito,
“esplicato” solo per esigenze di
“scaletta” ed equilibri di
“sceneggiatura”. Il “tono
termico” che le sottende, ed il linguaggio, ci confermano
ancora una volta che Chiozza è sempre nella quota
processuale della relazione, quasi inevitabilmente. Non riesce ad
abitare altro che questa, anche quando si cimenta con decaloghi del
buon vivere. La prova provata di quello che dico è nel suo
pudore, nel suo pregiudiziale cercare di prendere le distanze dalla
quota formale e da ogni prescrittività finalistica, nel suo
quasi scusarsi con il lettore per una fraintendibile
“magniloquenza” in tal senso. Per dirlo con le sue
parole, a proposito del Decalogo, la difficoltà
sta nel fatto che in un decalogo è molto difficile evitare
che il discorso, piegandosi continuamente verso il dovere, assuma in
modo indesiderato quel tono “magniloquente” e
quella semplificazione dell’etica propri delle massime da
calendario. Spero che il lettore possa andare al di là
dell’aliquota di questo difetto che non ho potuto evitare e
che approfitti di questo decalogo che è nato alcuni anni fa
con la forma vivace di un piacevole gioco. Questa
raccomandazione è un eccesso di scrupolo.
Chi conosce
Chiozza (noi che abbiamo “viaggiato” con
lui…) non potrà mai fraintenderlo. Richard
Weizsacker ha scritto che ogni caso clinico è da
interpretare come la storia di una vita, tradurre il linguaggio della
malattia nel linguaggio della biografia, ed ha sperato che ricercatori
più giovani portassero a termine questo compito. Chiozza
è tra i più grandi tra quelli che ci hanno
provato, ci ha insegnato che non bisogna mai tradire il livello
narrativo, che bisogna riuscire a simbolizzare la sofferenza, a trovare
un’immagine intorno a cui narrare il senso
dell’esistenza. L’anamnesi non
è forse, il tracciato di una vita? Questo non si avvicina al
processo creativo della narrativa? Nella malattia
può manifestarsi l’essenza dell’uomo, la
personalità e la sua umanità tutta intera.
Avvicinandosi ai processi narrativi, si può meglio
ricostruire la realtà: solo la narrazione, non separando
l’umanità dalla realtà, rende questa
ultima finalmente leggibile.
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