Céline (pseudonimo scelto da Louis Ferdinand Destouches in
omaggio al nome della nonna materna) ha in pratica scritto per
tutta la vita un solo grande romanzo autobiografico, articolato in
più volumi, dai due capolavori iniziali, Viaggio
al termine della notte (preceduto dalla prova teatrale La chiesa) e Morte a credito,
per arrivare alla sua ultima opera, una delle più controverse dal
versante critico, il romanzo Rigodon,
scritto tra il 1960 e il 1961 e concluso, probabilmente nella
stesura non definitiva, solo alla vigilia della morte e
ripubblicato lo scorso giugno da Einaudi nella traduzione
originaria di Giuseppe Guglielmi.
La fortuna critica di Céline non può prescindere dalla
sua vicenda umana: si definiva medico per vocazione (esercitò la
professione per tutta la vita) e scrittore per necessità, e per
questo descrive con lo spirito di un medico quasi in ogni sua
singola pagina la patologia del vivere.
Già all’Università Céline rivela la sua doppia natura
di medico e di scrittore: infatti si laurea con una tesi che in
realtà è uno straordinario racconto che narra l’esemplare
vicenda del dottor Semmelweis, lo scopritore, avversato
dall’establishment, della causa della febbre puerperale che a
Vienna uccideva le partorienti. Causa molto banale: lo stesso
sanitario che prima praticava un’autopsia poi senza nemmeno
lavarsi le mani si trasformava in ostetrico…
Dopo la laurea Céline gira il mondo come medico della
Società delle Nazioni, un’esperienza fondamentale per la sua
vicenda successiva, non solo perché gli ispira il Viaggio
al termine della Notte ma anche perché ai contrasti di allora
con i suoi superiori ebrei si fa risalire la nascita del suo
parossistico antisemitismo. Osannnato a inizio carriera dai
critici e idolatrato dal pubblico per il Viaggio,
dapprima si alienò le simpatie degli intellettuali comunisti con
il suo lucido pamphlet sull’Unione Sovietica Mea
culpa e poi, scrivendo tre libelli antisemiti, il più noto
dei quali è Bagattelle per
un massacro, superò per violenza verbale il delirio nazista,
anche se in realtà dietro agli attacchi agli ebrei Céline
nascondeva una posizione radicalmente antiborghese e
anticapitalista.
Non è del tutto chiarito l’atteggiamento tenuto da Céline
all’epoca della repubblica di Vichy; egli certo non era
antitedesco e continuò a vivere con tutti gli agi che i ricchi
guadagni derivanti dalla vendita dei primi libri gli avevano
garantito; inoltre, durante l’occupazione scrisse anche articoli
razzisti su giornali allineati, ma non ci sono prove reali di
collaborazionismo, se con il termine si intende aver denunciato o
fatto arrestare persone ostili al regime di occupazione.
Comunque sia, la compromissione con la repubblica di Vichy
apparve evidente e alla liberazione di Parigi fu emesso un mandato
di cattura nei confronti di Céline
costretto a scappare.
Rigodon
chiude la cosiddetta “trilogia del Nord” in cui Céline
racconta le sue vicende prima di medico al seguito degli sfollati
di Vichy in Germania e poi di fuggitivo, insieme alla moglie Lily
(in realtà Lucette) e al gatto Bebert, e per un certo periodo
assieme all’attore amico Robert Le Vigan. Ma come sempre in Céline
la vicenda biografica è trattata come un flusso di ricordi che
mischiano vicende e tempi.
In Rigodon
infatti vengono infatti narrate le peregrinazioni compiute in
treno dapprima per giungere a Sigmaringen, nella Foresta Nera, per
poi arrivare, attraversando una Germania in fiamme, con scenari da
ultimi giorni di Pompei, a Copenhagen, dove Céline, condannato a
morte per collaborazionismo dal governo francese, si rifugiò alla
fine della guerra, in cerca di salvezza (fini però ugualmente in
prigione) e dei ricchi proventi
dei suoi vecchi diritti d’autore lì depositati.
Il viaggio narrato non segue un ordine cronologico reale:
è un flusso allucinato di memoria tenuto assieme da una cornice
narrativa che racconta le condizioni di difficoltà economiche e
sociali in cui Céline versava all’epoca (memorabile un
tormentone della Trilogia: “il Nobel dovevano darlo a me e non a
Camus, così pagavo la bolletta del gas”). Céline abitava
allora a Meudon, sobborgo popolare di Parigi dove lo scrittore
maledetto conduceva un’esistenza da clochard e sopravviveva con
il ricavato delle lezioni di danza che la moglie dava a pochi
allievi. E la danza ebbe sempre un ruolo fondamentale nella vita
di Céline, affascinato dalle ballerine e dai balli: non per nulla
Rigodon è il nome di una antica danza dove i ballerini compivano
passi avanti e indietro per poi trovarsi inesorabilmente al punto
di partenza.
Il romanzo non è leggibile prescindendo dal resto
dell’opera di Céline, men che meno dai due che lo precedono e
che insieme costituiscono un corpus unitario. La scrittura di Céline
è qui portata ai suoi limiti estremi, con le sue tre
caratteristiche peculiari: l’umorismo, anche macabro ( Céline
è forse il più grande comico del Novecento e la critica
letteraria ha avuto gioco facile nel trovare l’origine dello
stile celiniano nel grasso calderone linguistico del “comico”
Rabelais); l’uso dell’argot,
lo slang adoperato dalle classi più umili (una scelta costante della
vita di Céline, fatta anche per accreditarsi un’inesistente
origine popolare: egli era infatti figlio di due commercianti
discretamente agiati); il ritmo sincopato della frase, spezzata
continuamente da puntini di sospensione.
Memorabili le descrizioni delle Germania in
ginocchio, ma forse ancora più notevole l’ultima pagina del
romanzo, quella che prefigura la Francia e il mondo occidentale
invasi dai cinesi, fermati solo, secondo l’astemio Céline, da
Champagne e cognac che li ubriacano.
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