Rigodon

di Louis-Ferdinand Céline

Editore: Einaudi,Torino, 2007

Pagine: XIV - 271,

Prezzo: € 17.00

 

 

 

 





 

Rigodon di Louis-Ferdinand Céline

 

Céline (pseudonimo scelto da Louis Ferdinand Destouches in omaggio al nome della nonna materna) ha in pratica scritto per tutta la vita un solo grande romanzo autobiografico, articolato in più volumi, dai due capolavori iniziali, Viaggio al termine della notte (preceduto dalla prova teatrale La chiesa) e Morte a credito, per arrivare alla sua ultima opera, una delle più controverse dal versante critico, il romanzo Rigodon, scritto tra il 1960 e il 1961 e concluso, probabilmente nella stesura non definitiva, solo alla vigilia della morte e ripubblicato lo scorso giugno da Einaudi nella traduzione originaria di Giuseppe Guglielmi.

La fortuna critica di Céline non può prescindere dalla sua vicenda umana: si definiva medico per vocazione (esercitò la professione per tutta la vita) e scrittore per necessità, e per questo descrive con lo spirito di un medico quasi in ogni sua singola pagina la patologia del vivere.

Già all’Università Céline rivela la sua doppia natura di medico e di scrittore: infatti si laurea con una tesi che in realtà è uno straordinario racconto che narra l’esemplare vicenda del dottor Semmelweis, lo scopritore, avversato dall’establishment, della causa della febbre puerperale che a Vienna uccideva le partorienti. Causa molto banale: lo stesso sanitario che prima praticava un’autopsia poi senza nemmeno lavarsi le mani si trasformava in ostetrico…

Dopo la laurea Céline gira il mondo come medico della Società delle Nazioni, un’esperienza fondamentale per la sua vicenda successiva, non solo perché gli ispira il Viaggio al termine della Notte ma anche perché ai contrasti di allora con i suoi superiori ebrei si fa risalire la nascita del suo parossistico antisemitismo. Osannnato a inizio carriera dai critici e idolatrato dal pubblico per il Viaggio, dapprima si alienò le simpatie degli intellettuali comunisti con il suo lucido pamphlet sull’Unione Sovietica Mea culpa e poi, scrivendo tre libelli antisemiti, il più noto dei quali è Bagattelle per un massacro, superò per violenza verbale il delirio nazista, anche se in realtà dietro agli attacchi agli ebrei Céline nascondeva una posizione radicalmente antiborghese e anticapitalista.

Non è del tutto chiarito l’atteggiamento tenuto da Céline all’epoca della repubblica di Vichy; egli certo non era antitedesco e continuò a vivere con tutti gli agi che i ricchi guadagni derivanti dalla vendita dei primi libri gli avevano garantito; inoltre, durante l’occupazione scrisse anche articoli razzisti su giornali allineati, ma non ci sono prove reali di collaborazionismo, se con il termine si intende aver denunciato o fatto arrestare persone ostili al regime di occupazione.

Comunque sia, la compromissione con la repubblica di Vichy apparve evidente e alla liberazione di Parigi fu emesso un mandato di cattura nei confronti di  Céline costretto a scappare.

Rigodon chiude la cosiddetta “trilogia del Nord” in cui Céline racconta le sue vicende prima di medico al seguito degli sfollati di Vichy in Germania e poi di fuggitivo, insieme alla moglie Lily (in realtà Lucette) e al gatto Bebert, e per un certo periodo assieme all’attore amico Robert Le Vigan. Ma come sempre in Céline la vicenda biografica è trattata come un flusso di ricordi che mischiano vicende e tempi.

In Rigodon infatti vengono infatti narrate le peregrinazioni compiute in treno dapprima per giungere a Sigmaringen, nella Foresta Nera, per poi arrivare, attraversando una Germania in fiamme, con scenari da ultimi giorni di Pompei, a Copenhagen, dove Céline, condannato a morte per collaborazionismo dal governo francese, si rifugiò alla fine della guerra, in cerca di salvezza (fini però ugualmente in prigione) e dei ricchi  proventi dei suoi vecchi diritti d’autore lì depositati.

Il viaggio narrato non segue un ordine cronologico reale: è un flusso allucinato di memoria tenuto assieme da una cornice narrativa che racconta le condizioni di difficoltà economiche e sociali in cui Céline versava all’epoca (memorabile un tormentone della Trilogia: “il Nobel dovevano darlo a me e non a Camus, così pagavo la bolletta del gas”). Céline abitava allora a Meudon, sobborgo popolare di Parigi dove lo scrittore maledetto conduceva un’esistenza da clochard e sopravviveva con il ricavato delle lezioni di danza che la moglie dava a pochi allievi. E la danza ebbe sempre un ruolo fondamentale nella vita di Céline, affascinato dalle ballerine e dai balli: non per nulla Rigodon è il nome di una antica danza dove i ballerini compivano passi avanti e indietro per poi trovarsi inesorabilmente al punto di partenza.

Il romanzo non è leggibile prescindendo dal resto dell’opera di Céline, men che meno dai due che lo precedono e che insieme costituiscono un corpus unitario. La scrittura di Céline è qui portata ai suoi limiti estremi, con le sue tre caratteristiche peculiari: l’umorismo, anche macabro ( Céline è forse il più grande comico del Novecento e la critica letteraria ha avuto gioco facile nel trovare l’origine dello stile celiniano nel grasso calderone linguistico del “comico” Rabelais); l’uso dell’argot, lo slang adoperato dalle classi più umili (una scelta costante della vita di Céline, fatta anche per accreditarsi un’inesistente origine popolare: egli era infatti figlio di due commercianti discretamente agiati); il ritmo sincopato della frase, spezzata continuamente da puntini di sospensione.

Memorabili le descrizioni delle Germania in ginocchio, ma forse ancora più notevole l’ultima pagina del romanzo, quella che prefigura la Francia e il mondo occidentale invasi dai cinesi, fermati solo, secondo l’astemio Céline, da Champagne e cognac che li ubriacano.

 

 

     Recensione di Gino Pagliuca