Il montaggio di un’opera
cinematografica è un’operazione consistente nel tagliare e
giuntare tra loro quei pezzi di pellicola che comporranno un film.
Mentre il film rappresenta il punto di vista del regista che lo
dirige, per quanto esso sia comunque strettamente connesso alla
capacità degli attori e dello sceneggiatore di riuscire a rendere
questo punto di vista; il montaggio costituisce invece una sorta
di elevazione a potenza del punto di vista del regista poiché il
montatore seleziona e dà un senso ad una serie di immagini e
suoni che sono stati già scelti in una fase precedente. Il
montaggio rappresenta quindi uno dei passaggi più importanti,
complessi e delicati che è necessario affrontare nel momento in
cui si realizza un film. E di questo Roberto Perpignani, storico
montatore del cinema italiano, ne è sempre stato molto
consapevole. Nel suo libro Dare
forma alle emozioni, edito da Falsocinema nel 2006, Perpignani
non a caso propone un’analisi del montaggio basata
sull’interpretazione soggettiva dell’individuo. Questa scelta
porta con se una vera e propria rivoluzione gnoseologica.
L’interpretazione impone infatti uno sforzo costante di continua
fondazione dei valori
poiché questi ultimi, non essendo più considerati come entità
assolute, sono sottoposti, come la realtà nella quale ogni
vivente si trova ad interagire, in una condizione di perenne
divenire. La fine dei valori oggettivi naturalmente non
sottintende assolutamente quello stato di anomia e di cieca
affermazione, anche nelle forme più spregevoli, degli interessi
individuali. Non riconoscere nulla come definitivo rende
necessario uno sforzo di maggiore responsabilità in ogni azione
che si compie. Si rende necessaria pertanto la capacità di
assumersi la responsabilità per ogni forma di azione o pensiero;
questa necessità nasce proprio dal fatto che non ci si può più
affidare, o per meglio dire, nascondere dietro il paravento di
quei valori considerati per lungo tempo come oggettivi. Il
montaggio in quest’ottica si pone come una delle possibili
metafore della condizione umana. Perpignani infatti definisce il
montaggio come “l’operazione che consente alle forme della
comunicazione audio-visiva di costituirsi in rappresentazione
attraverso procedimenti di accostamento di elementi visivi e
sonori”. L’autore di questa definizione non a caso usa
l’espressione “accostare elementi visivi e sonori”, l’accostare
infatti è un atto proprio del confrontare,
dell’accomunare, un atto che costituisce cioè il risultato
tangibile di una interpretazione soggettiva. In tal senso
sarà il montatore che deciderà quali elementi visivi e sonori
dovranno essere accostati e quali scartati. Questa operazione,
avendo però come oggetto delle immagini in movimento, risulta
essere piuttosto delicata giacché le immagini in movimento sono
percepite dallo spettatore come verosimili, ossia come qualcosa
che è quasi realtà. Il verosimile artistico, riordinando
sistematicamente una serie di elementi con una motivazione
coerente, dà un significato organico al materiale che utilizza,
al punto che può apparire, a chi lo percepisce dall’esterno,
come espressione del vero. In altre parole il montatore
lavora con materiali che potranno essere riconosciuti, da chi ne
entrerà in contatto, non come il frutto di una interpretazione
della realtà, ma come la realtà stessa: le immagini montate
potranno essere trasformate in una espressione di oggettività.
Perpignani su questo punto è molto chiaro: “Tutte le operazioni
stilistiche e linguistiche, anche quelle dell’inverosimile,
primo fra tutte il montaggio, sono state assimilate, accettate
come assolutamente naturali in virtù della verosimiglianza della
materia da un lato e dell’identità del processo costruttivo
linguistico cinematografico con quello della mente umano
dall’altro” (pp. 134-135). Questa particolare condizione può
essere spiegata sia dalla qualità della mente creativa
dell’autore che produce le immagini sia dalla mente
“coocreativa dello spettatore” che le riceve. Lo spettatore in
tal modo si trasforma da elemento passivo ad un attore attivo,
anche se solo nella fase terminale, di questo complesso processo
di comunicazione. Sembra in qualche modo riproporsi il problema
weberiano dell’oggettività. Il filosofo tedesco infatti in un
suo celebre saggio del 1904 propose una soluzione al rapporto tra
la soggettività prodotta da ogni esperienza del vivente e la
necessità di definire una conoscenza che potesse muoversi su basi
valide per tutti. Weber, pur partendo da una prospettiva della
realtà per la quale ogni azione umana è sempre espressione dello
schema di valori individuali, sostiene che nella ricerca
scientifica è comunque possibile individuare una forma di
oggettività. Questa forma di oggettività tuttavia non può
essere individuata nel contenuto di una ricerca, poiché tale
contenuto sarà sempre, inequivocabilmente, espressione di una
scelta individuale. L’oggettività teorizzata da Weber si
riferisce invece alla metodologia utilizzata per realizzare una
ricerca. In una ricerca quindi è il metodo, e non il contenuto,
che può aspirare ad essere oggettivo.
Perpignani
sembra implicitamente concordare con questa posizione. Il
montatore italiano è infatti consapevole che il lavoro del
regista cinematografico prima e del montatore poi sarà sempre e
comunque il frutto di scelte individuali; ciò che invece può
aspirare all’oggettiva sarà solo la metodologia utilizzata,
giacché la metodologia, nel momento in cui viene esplicitata,
diventa riproducibile, e dunque oggettiva. I contenuti
invece rimarranno sempre confinati nella sfera della soggettività
proprio perché imprescindibilmente connessi alle scelte e allo
schema di valori di chi li realizza. Si pensi ad esempio al
momento in cui un regista deve riprendere una certa scena o un
montatore produrre una certa sequenza. Lo schema di valori del
regista influenzerà il modo in cui tali riprese verranno
effettuate scegliendone alcune anziché delle altre, così come
una certa serie di accostamenti
che un montatore deciderà di eseguire, escluderà di fatto altre
infinite possibilità.
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