Ogni studioso che si rispetti si
trova a dover affrontare, lungo tutto il corso della propria
esistenza, le sue più o meno ricorrenti ossessioni. Una di quelle
con cui Antonio Cavicchia Scalamonti ha dovuto più spesso fare i
conti è stata certamente la lugubre ossessione della morte. Già
dalla fine degli anni Settanta, sulla scia dei più significativi
lavori sull’argomento dei quali si cominciava proprio in quel
periodo a discutere negli Stati Uniti e nei principali paesi
europei, lo studioso napoletano, nei suoi primi saggi, aveva con
molta acutezza individuato nella morte uno degli indicatori
privilegiati per lo studio della società occidentale moderna. A
distanza di circa trent’anni, a seguito di continui e sempre più
raffinati approfondimenti, che lo attestano oggi come uno dei più
autorevoli referenti italiani su questo tema, Cavicchia Scalamonti
ha dato alle stampe un volume che pone ancora una volta la morte
come nucleo intorno al quale far ruotare una serie di originali
analisi sociologiche sulla nostra cultura.
Essendo oramai considerata una
delle variabili fondamentali per lo studio del comportamento
collettivo, la sociologia della morte è divenuta un settore molto
esteso delle scienze sociali, all’interno del quale è possibile
ritrovare studi che spaziano dall’analisi storico-sociologica
sull’evoluzione della visione della morte nelle diverse società,
a quelle di orientamento più marcatamente socio-antropologico,
maggiormente interessate ai vari modi di vedere la morte
nell’ambito di collettività diverse per cultura, tradizione,
epoca storica, collocazione geografica.
E ancora, possono ricadere sotto
l’ombrello di quest’ambito disciplinare tutte quelle ricerche
che tendono ad assumere come oggetto di studio le modalità
collettive elaborate per “affrontare” i morti e i morenti,
i morti e i loro congiunti, i morti e i loro corpi, le loro
tracce, la loro memoria. I temi che Antonio Cavicchia affronta uno
per uno nel suo libro.
Ma esiste anche un altro filone
di studi da far rientrare nell’alveo di una sociologia della
morte o, forse meglio, di una sociologia della
cultura della morte, e che non si riferisce tanto a quegli
aspetti della mentalità umana e a quelle pratiche collettive che
apertamente ed esplicitamente si richiamano ai fatti e alle
concezioni della morte e della mortalità, quanto soprattutto a
quei lavori che cercano di sottoporre ad indagine la presenza
della morte (vale a dire la conoscenza consapevole o rimossa della
mortalità) nelle istituzioni, nei rituali e nelle credenze umane
che, a giudicare dalle apparenze, svolgono esplicitamente e
consapevolmente funzioni totalmente diverse, prive di relazioni
con le preoccupazioni normalmente indagate negli studi dedicati
alla sociologia e alla storia della morte e del morire. Ed è
nell’ambito di questa tipologia di studi che si inserisce
quest’ultimo lavoro.
Come molti tanatologi anche
Cavicchia Scalamonti sembra concordare sul seguente aspetto: la
modernità occidentale si contraddistingue, tra le altre cose, per
un suo evidente rifiuto nei confronti della morte. Detto in altri
termini, la forma mentis o l’Universo Simbolico peculiare di questo tipo di
società non riesce in alcun modo ad inserire il concetto di morte
all’interno delle proprie coordinate interpretative della realtà.
Certo, la si studia di più, il che costituisce un importante
indicatore, seppur alquanto ambiguo. Da
una parte – egli ha scritto – può significare una maggior
presa di coscienza, dall’altra un ennesimo modo di esorcizzare
– oggettivandola e neutralizzandola nello studio – la morte
stessa.
È comunque un dato di fatto
indiscutibile che se la morte venisse inserita negli ambiti
“normali” della vita di tutti i giorni, se venisse cioè
lasciata penetrare senza quei filtri che contribuiscono a tenerla
“ai margini” dei discorsi e delle pratiche quotidiane, la
nostra visione del mondo muterebbe profondamente.
Per poter mantenere la morte ai
suoi confini, la nostra società ha adottato, evidentemente, una
serie di strategie più o meno istituzionalizzate messe in atto
dagli attori sociali al fine di creare quegli schermi protettivi
necessari ad attutire lo sconvolgente impatto potenziale della
morte.
Come dei fedeli tifosi della
nostra squadra di calcio del cuore, noi tutti, più o meno
convinti, abbiamo imparato ad affidarci all’allenatore che, di
volta in volta, si assume le responsabilità di gestire la tattica
più opportuna per affrontare l’avversario. Beninteso, in genere
è una partita – quella con la morte – che si cerca di evitare
o di rimandare finché si può. Ma se proprio bisogna affrontarla,
allora le strategie adottate possono essere – proprio come nel
calcio (o nello sport in genere) di difesa o di attacco. Nel primo
caso, si prova a collocare il nostro avversario ai margini della
società, alla periferia della nostra coscienza collettiva.
Queste strategie di difesa sono
di nasconderla, di evitare di parlarne, rinviando e posticipando
quanto più è possibile ogni riferimento al tema e a colui o
coloro che potrebbero suggerirne una qualsivoglia rievocazione.
Quando proprio non se ne può fare a meno, allora si comincia a
prenderla in considerazione, a parlarne seriamente, assumendone la
reale esistenza per paragonarla ad un avversario razionalmente
forte, fortissimo, praticamente invincibile. D’altro canto, però,
si indebolisce la sua potenza (e prepotenza) neutralizzandolo
affettivamente.
Secondo
Cavicchia Scalamonti la più efficace delle strategie che
l’uomo occidentale ha elaborato a partire dalla modernità per
tenere ai margini la morte, è consistita fondamentalmente
nell’accettare – o meglio – nell’arrendersi alla
tranquillizzante ricchezza del quotidiano. In particolare, tale
strategia è strettamente connessa all’abbondante ricchezza
materiale prodotta dal prorompente e pervasivo modello
consumistico intorno al quale si è venuta strutturando la realtà
da cui egli è attualmente circondato. È la routine,
è l’immergersi in questo dilagante insieme di oggetti materiali
e immateriali ciò che in gran parte ci tranquillizza.
È però anche vero che,
purtroppo – e spesso in modo imprevedibile – ogni tanto questi
margini, queste dighe, questi “filtri” si frantumano e
cominciano a venir fuori delle crepe. Basta poco, basta lo sguardo
preoccupato di un medico, basta una diagnosi infausta, a volte
anche un piccolo dolore che non ci si riesce a spiegare
razionalmente. Oppure, peggio, basta una morte improvvisa,
inattesa, di un altro, soprattutto di un altro
significativo, allora la nostra visione della vita (e della
morte!) viene profondamente sconvolta, talvolta in maniera anche
radicale.
È a questo punto che si rendono
allora necessarie delle strategie di attacco dell’avversario. Il
modo storicamente più elaborato e fecondo di attuare tali
strategie è stato quello di cercare di negare l’evidenza dei
“fatti”, proponendo una qualche mitologia dell’immortalità,
un mito della “vita dopo la morte”, empiricamente testimoniato
dalla diffusione di una serie praticamente indefinita di “culti
dei defunti”, a loro volta derivanti dall’uso tradizionalmente
trasmesso di seppellire i morti e di affiancarvi segni e
simbologie di un mondo trascendente.
La profondità dell’analisi e
la ricchezza della documentazione; l’abilità con cui dialoga e
fa dialogare tra loro autori e discipline diverse, e soprattutto
la chiarezza con la quale orchestra le delicate componenti della
sua opera potrebbero destinare questo volume a diventare col tempo
una sorta di classico degli studi sociologici sulla morte, in un
panorama nel quale la letteratura (specializzata e non) propone
troppo spesso titoli talvolta approssimativi, seguendo d’altra
parte una tendenza dettata dalle esigenze di presentificazione,
superficialità, velocità che caratterizzano la nostra cultura
attuale, per una serie di motivi che peraltro il libro stesso
riesce ben a spiegare.
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