Templi e musei del corpo immaginario di Maria D’Ambrosio

 


In tal modo il corpo, sebbene malato, è corpo esposto, esibito allo sguardo medico per ricevere da questo una adeguata risposta terapeutica. Per fare del corpo malato l’oggetto di cure rivolte a quella guarigione che potrà restituirlo allo spazio sociale cui appartiene, e al quale è stato temporaneamente sottratto.

Allontanarsi, separarsi dalla propria quotidianità è costitutivo di una prassi medica radicata che passa per la visibilità e la leggibilità dei sintomi, e che diventa modalità di accesso alle cause anche più remote, e perciò più nascoste, della malattia. Curare il corpo è curare la sua superficie come le sue profondità.

Il cambiamento nel sapere medico, alla fine del XVIII secolo, non dipende forse essenzialmente dal fatto che il medico si è accostato l’orecchio e, cambiando ogni scala, ha cominciato a percepire quel che c’era immediatamente dietro la superficie visibile, venendo così a poco a poco indotto a “passare dall’altra parte” e ad individuare la malattia nella segreta profondità del corpo?[2]

Allora la retorica della salute e del benessere si confondono con quella della clinica e della terapia medica. Ovvero anche quelle punitive e carcerarie. Foucault[3] ci ricorda che le pene corporali sono state sin dall’antichità il metodo individuato per una qualche espiazione spirituale. Una penalità corporea che nel tempo ha incluso pratiche che vanno dalla reclusione alla correzione fino alla tortura e al supplizio. E soprattutto a uno sguardo panoptico.

Sguardo, una sua qualità, un suo esercizio del potere e del potere del controllo, che sembra quello cui la tv e il web (blog …) hanno maggiormente destinato i corpi di qualcuno come fossero i corpi di tutti. Pratiche di manipolazione del corpo prima inserite nella cornice del tempio per adorare il corpo, poi della galera per mortificarlo. E oggi?

I corpi si ritrovano esposti e in qualche modo segregati per essere celebrati soprattutto nei loro canoni di bellezza. Ma anche corpi che prima di essere esposti vengono come rinchiusi in centri benessere “spa” o altro per ritornare sulla scena nella forma più desiderata e desiderabile. Prima di arrivare “in vetrina”, nel piccolo o nel grande schermo, finiscono spesso per sottoporsi anche ad interventi chirurgico-estetici così da ri-modellare e protesizzare quegli stessi corpi per i quali, antichi e moderni, occidentali e orientali, resta l’orizzonte del piacere e dell’immortalità.

Nell’arte estrema di Orlan il corpo è l’oggetto dell’arte mentre la chirurgia estetica e il video sono gli attrezzi. Al termine del processo (che in realtà non termina mai, poiché in progress) il corpo come ogni opera d’arte si archivia, si destina alla condizione museale. Vale solo per Orlan? No, il ricorso al moderno know how (conoscenze scientifiche istituzionale + quelle “alternative”) ci appare come una rincorsa al restauro della gioventù, rovesciando completamente la logica delle cose. Laddove il corpo era memoria, deposito delle esperienze, dei segni della propria vita, oggi è un museo dell’immaginario, dell’immaginario privato/collettivo sul corpo sano. Si plasma su sé stessi non il come eravamo, ma il come ci immaginiamo che fossimo, sulla scorta, naturalmente, dell’odierno ossessivo ignorare lo scorrere del tempo, del vivere nell’infinito presente e, di conseguenza, ignorando la morte come la vita e le stagioni della bellezza.

E torna in mente qualche sequenza del film Cleopatra del 1963 di Joseph L. Mankiewicz: la bellezza di Elisabeth Taylor che parla a tutte le donne del loro potere seduttivo e che, invece, molte traducono con un fine settimana in albergo spa e relativi “bagni di benessere”, o con un passaggio dal loro chirurgo estetico.

Salute!

 


[2] J. Baudrillard, Simulacri e impostura, Cappelli, Bologna 1980, pag. 7.

[3] Idem, pag. 21

 

 

    [1] (2)