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Allontanarsi, separarsi dalla propria
quotidianità è costitutivo di una prassi medica radicata che passa per la
visibilità e la leggibilità dei sintomi, e che diventa modalità di accesso alle
cause anche più remote, e perciò più nascoste, della malattia. Curare il corpo
è curare la sua superficie come le sue profondità. Il cambiamento nel sapere medico, alla fine del XVIII
secolo, non dipende forse essenzialmente dal fatto che il medico si è accostato
l’orecchio e, cambiando ogni scala, ha cominciato a percepire quel che c’era
immediatamente dietro la superficie visibile, venendo così a poco a poco
indotto a “passare dall’altra parte” e ad individuare la malattia nella segreta
profondità del corpo?[2] Allora la retorica della salute e del
benessere si confondono con quella della clinica e della terapia medica. Ovvero
anche quelle punitive e carcerarie. Foucault[3] ci ricorda che le pene
corporali sono state sin dall’antichità il metodo individuato per una qualche
espiazione spirituale. Una penalità corporea che nel tempo ha incluso pratiche
che vanno dalla reclusione alla correzione fino alla tortura e al supplizio. E
soprattutto a uno sguardo panoptico. Sguardo, una sua qualità, un suo esercizio del
potere e del potere del controllo, che sembra quello cui la tv e il web (blog
…) hanno maggiormente destinato i corpi di qualcuno come fossero i corpi di
tutti. Pratiche di manipolazione del corpo prima inserite nella cornice del
tempio per adorare il corpo, poi della galera per mortificarlo. E oggi? I corpi si ritrovano esposti e in qualche modo
segregati per essere celebrati soprattutto nei loro canoni di bellezza. Ma
anche corpi che prima di essere esposti vengono come rinchiusi in centri
benessere “spa” o altro per ritornare sulla scena nella forma più desiderata e
desiderabile. Prima di arrivare “in vetrina”, nel piccolo o nel grande schermo,
finiscono spesso per sottoporsi anche ad interventi chirurgico-estetici così da
ri-modellare e protesizzare quegli stessi corpi per i quali, antichi e moderni,
occidentali e orientali, resta l’orizzonte del piacere e dell’immortalità.
Nell’arte estrema di Orlan il corpo è
l’oggetto dell’arte mentre la chirurgia estetica e il video sono gli attrezzi.
Al termine del processo (che in realtà non termina mai, poiché in progress) il
corpo come ogni opera d’arte si archivia, si destina alla condizione museale.
Vale solo per Orlan? No, il ricorso al moderno know how (conoscenze
scientifiche istituzionale + quelle “alternative”) ci appare come una rincorsa
al restauro della gioventù, rovesciando completamente la logica delle cose.
Laddove il corpo era memoria, deposito delle esperienze, dei segni della propria
vita, oggi è un museo dell’immaginario, dell’immaginario privato/collettivo sul
corpo sano. Si plasma su sé stessi non il come eravamo, ma il come ci
immaginiamo che fossimo, sulla scorta, naturalmente, dell’odierno ossessivo
ignorare lo scorrere del tempo, del vivere nell’infinito presente e, di
conseguenza, ignorando la morte come la vita e le stagioni della bellezza. E torna in mente qualche sequenza del film Cleopatra del 1963 di Joseph L.
Mankiewicz: la bellezza di Elisabeth Taylor che parla a tutte le donne del loro
potere seduttivo e che, invece, molte traducono con un fine settimana in
albergo spa e relativi “bagni di benessere”, o con un passaggio dal loro
chirurgo estetico. Salute!
[2] J. Baudrillard, Simulacri e impostura, Cappelli, Bologna 1980, pag. 7. [3] Idem, pag. 21
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[1] (2) |