Viaggio al termine della Storia

 

di Adolfo Fattori

 

Nel suo La città delle luci[1] Sergio Brancato pone al centro del suo discorso il rapporto fra cinema e Storia. In questo senso, citando Alberto Abruzzese, Pierre Sorlin, e altri studiosi di cinema, riflette sulla capacità del cinema di essere “teoria della società moderna” (pag. 55), e alla fin fine, in quanto strumento di socializzazione della conoscenza, una delle forze che conducono alla realizzazione della “condizione moderna” (pag. 86).

In particolare il film storico – producendo un “doppio passato”[2], quello del tempo in cui si svolgono le vicende narrate e quello della realizzazione del film

… si muove nella storia per affrontare i temi del presente… Il film storico diventa, in questa prospettiva, un tassello nella necessaria riconsiderazione del nostro rapporto con la storia e con gli strumenti che tradizionalmente ne producono la verità.[3]

Il cinema acquista quindi sotto alcuni rispetti anche una funzione museale: anche nei musei di storia dell’arte, come nelle mostre tematiche, l’esposizione, la disposizione delle opere è frutto di una scelta e di un approccio, oltre che della disponibilità concreta delle opere. Il che offre al visitatore una particolare visione delle cose, in parte voluta, in parte casuale, ma che a lui si presenta come la visione di un certo periodo, di una certa atmosfera, di una certa estetica.

Questa dimensione di “magazzino” dell’immaginario che ha il cinema si espande oltre i limiti della Storia quando ci rivolgiamo ai film di fantascienza: film che appartengono al nostro passato, ma che mettono in scena un futuro possibile: rispetto all’epoca in cui sono stati girati, come all’oggi in cui li rivediamo.

Ancora Brancato scrive:

D’altra parte la science fiction – sensibile cartina al tornasole di quei processi tardomoderni indagati dalle storie delle mentalità e dell’immaginario – andrebbe recuperata nella sua dimensione di riflessione costante, all’interno della cultura di massa, sulla stessa filosofia della storia.[4]

 Questo loop, questo anello di Möbius si completa nel momento in cui al centro della trama del film vengono collocati luoghi e situazioni che sono a loro volta musei, esposizioni, parchi a tema.

È il caso, ad esempio, di Il mondo dei robot, il primo film di Michael Crichton.[5] In un futuro ormai a noi prossimo, esistono centri di divertimenti come il Centro Delos, che offre a clienti danarosi la possibilità di vivere ed esorcizzare i propri sogni e incubi in tre mondi: l'antichità romana, il Medioevo e l'Ovest americano del 1880, tutti abitati da robot tanto simili agli esseri umani (oggi li chiameremmo replicanti o cyborg) da sembrare persone vere. I due protagonisti scelgono il terzo, ma qualcosa comincia a non funzionare nel centro e i rischi diventano mortali.

Intanto, dal 1973 ad oggi, i “non luoghi” si sono moltiplicati, e una parte di questi simulano luoghi del passato. Come le ghost town del west americano, già usati come set nei film western, trasformati in diorami in scala reale, con attori che simulano sempre lo stesso duello per le comitive in gita: la realizzazione live di trame tipo Ai confini della realtà, in cui il tempo si è fermato e ritorna sempre su se stesso, a definire una stampa di Escher dislocata nel tempo. O come le camere dell’Holiday Inn di cui scriveva Umberto Eco[6] pochi anni dopo Il mondo dei robot.

 


[1] S. Brancato, La città delle luci, Carocci, Roma, 2003.

[2] per dirla con Sorlin.

[3] S. Brancato, ibidem, pag. 46.

[4] Ibidem, pag. 59.

[5] M. Crichton, Il mondo dei robot, USA, 1973.

[6] U. Eco, Dalla periferia dell’impero, Bompiani, Milano, 1977.

 

    (1) [2]