Templi e musei del corpo immaginario

 

di Maria D’Ambrosio

 

L’industria del benessere, fatta di chirurgia estetica, centri benessere, fitness, meso, prano e talasso terapie, fino allo yoga, la danza del ventre e la meditazione, rappresenta un ampio territorio dove si sperimentano e utilizzano tecniche e tecnologie, antiche o ultramoderne, per disciplinare i corpi, per sottrarli al loro naturale decadimento, alla vecchiaia, ai segni del tempo.

Ma fin qui nulla di nuovo.

Stando alle tecniche di imbalsamazione dei corpi utilizzate nell’antico Egitto, e dallo stato di conservazione di molte salme rinvenute nei sarcofagi di faraoni o sacerdoti, possiamo sostenere che il bisogno di curare il corpo sia antico oltre che, spesso, appunto, ammantato di sacralità.

La prima significativa differenza è “di classe”. Pratiche consentite a pochi in passato e servizi consumati in massa oggi. L’approccio, invece, non si è particolarmente alterato nel tempo, anzi la rincorsa agli antichi saperi è tuttora in corso. Andiamo con ordine e ripartiamo dall’antico Egitto.

Olii, essenze, gioielli, pietre preziose, ornamenti, nel contesto di quelle pratiche religiose, rappresentano modalità di cura rivolte al corpo in quanto dimora dell’anima: in quel contesto cioè la cura del corpo assumeva la funzione di preservare l’anima del defunto per condurlo fino alla vita ultraterrena, in uno stato che fosse degno di comparire al cospetto della divinità.

Il noto egittologo Erik Hornung ricorda infatti che

Nell’Egitto antico le tombe non erano luoghi della morte ma della vita rinnovata e della sua continuità nell’aldilà[1].

Conservare e curare il corpo.

Perché potesse essere esposto al divino, omaggiarlo con la propria presenza nella vita celeste. La tensione dunque è tutta rivolta al superamento del limite che in sé esprimono i corpi: l’essere cioè legati ad un arco temporale finito, definito, chiuso tra due eventi: la nascita e la morte.

Nell’antica Roma poi il tempo speso tra tepidarium calidarium e frigidarium, oltre che un forte valore sociale, ha espresso una riappropriazione del corpo come “soggetto” politico, tutto terreno, che del divino ha assunto solo le pose, così da chiedere all’arte, scultorea soprattutto, di immortalarne le forme e la gloria. Così il rituale legato alla cura del corpo possiede qualcosa dei filosofi della Repubblica di Platone: il prendersi Cura (del proprio corpo) è condizione e pratica del prendersi cura anche della polis. Il culto del corpo del Dio si mescola alla celebrazione del corpo dell’imperatore che rappresenta la propria grandezza attraverso la prestanza fisica che coincide con lo splendore dell’impero e la sua superiorità.

Quando si mescolano, come si sono mescolate, la cultura degli antichi egizi con quella degli antichi romani, irrompe nell’immaginario collettivo e popolare la figura di Cleopatra, il cui corpo, e le cure che vi prestava – il suo “mitico” bagno nel latte di asina o di capra – rappresentano il simbolo forte di un potere seduttivo, esercitato e ostentato per dimostrare una superiorità e una natura superiore. Sacro e profano, religione e politica, trovano dei nessi significativi nelle pratiche quotidiane che avvicinano anche Oriente e Occidente. Le loro forme di benessere sono passate e passano per cure che investono il corpo e ne fanno il protagonista di scelte che hanno un valore pubblico oltre che privato. Il corpo come simulacro che si prepara ad attraversare le porte e a sostare nelle stanze dove cielo terra e acqua si incontrano. Ovvero dove il benessere passa per questi elementi e in particolare per l’acqua. Salus Per Aquam, appunto.

Dalla storia al mito, l’industria del benessere marcato “spa” ha fatto proprio di Cleopatra l’icona esibita da centri benessere italici, d’oltralpe o esotici – quanto marketing anche di basso profilo! -  dove pure sembra di essere condotti nelle stanze dai soffitti stellati e dalle pareti decorate della valle dei Re per conquistare una, seppur effimera, condizione di rinascita e di equilibrio. 

Eppure l’architettura di queste strutture può ricordare l’idea del luogo di cura nel senso più strettamente medico e clinico: l’ospedale, la casa di cura, dove l’isolamento e la separazione sono condizione per ritornare dal disordine – l’odierno e metropolitano stress? – estraendo il morbo e affermando il potere della “ragione” e quindi della scienza sulla malattia, sul “male”, sulla morte.

 


[1] E. Hornung, 2002, La valle dei Re, tr. it., Torino, Einaudi, 2004, p. 3.

    (1) [2]