Non esiste niente in musica,
oggi, che restituisca il senso dell’eterno presente, nel quale
è immersa la modernità liquida, paragonabile ai loop di William
Basinski. Questo “El Camino Real”, non solo non fa eccezione,
ma ne rappresenta una delle
prove più compiute. Cinquanta minuti circa, un’unica traccia,
fonti sonore originarie impossibili da individuare (pianoforte?,
voce femminile?), avvolgente, estenuante. Qui non è l’autore a
prodursi in una performance, ma l’ascoltatore. Una semplicità
radicale. Basinski procede così: preleva cellule sonore, piccoli
frammenti dai propri archivi analogici e li riversa in digitale,
li sovraincide, volutamente sgranati, ma anche consumati dal
tempo, li ricuce insieme appena fuori sincrono e li manda in loop,
in ripetizione continua.
Tutto molto riverberato, suoni
naturali che a volte entrano in gioco e ne escono con altrettanta
discrezione. È il suono dal moto perpetuo, l’analogo
dell’invenzione di Morel, il magistrale romanzo di Bioy Casares:
“Non
ci saranno altri ricordi, se non quelli che ci furono nel relativo
istante della registrazione, e perché il futuro, tante volte
lasciato indietro, manterrà sempre i suoi attributi”.
Nei primi anni Novanta del secolo
scorso un artista inglese che si firmava Jliat (al secolo James
Whitehead) aveva realizzato qualcosa di simile, ma i suoni
dell’inglese risultavano al tempo stesso più melodiosi e
ossessivi, oltre a essere integralmente elettronici, mentre
Basinski si pone su un registro malinconico, utilizza strumenti
acustici o suoni rubati e manipola fonti analogiche.
L’artista texano residente a
New York ha iniziato a ri-produrre la sua musica negli anni
Novanta manipolando le registrazioni effettuate un bel po’ di
anni prima, esperimenti in genere a base di pianoforte e nastri
magnetici. Basinski inizia a far circolare i propri lavori grazie
all’etichetta tedesca Raster Noton che nel 1997 stampa su vinile
“Shortwavemusic”, ripubblicato quest’anno con una bonus
track.
Seguono poi i 4 volumi della
serie “Disintegration Loops”, lavoro monumentale dedicato
all’11 settembre, poiché a questi nastri contenenti
registrazioni del 1982, Basinski stava lavorando, riversandoli, a
New York e fu anch’egli spettatore del disastro. Le opere
voluminose non spaventano il nostro, che licenzia un’altra
serie, la “Watermusic” (in due volumi) e
il doppio “The River” tratto da nastri del 1983
contenenti suoni catturati da stazioni radio opportunamente
trattati.
Il
vero capolavoro, però, è “Melancholia”, quattordici tracce
che hanno per protagonista il pianoforte. Qui non sono possibili
fraintendimenti, il tema è dichiarato e i suoni lo commentano
adeguatamente. Struggente. Altro capitolo da segnalare è “The
Garden Of Brokenness” creato a partire da un nastro del 1979.
Anche qui protagonista il piano, che progressivamente si smarrisce
e svanisce nel silenzio per poi riapparire dal nulla.
L’avvertenza è d’obbligo per tutta la discografia di Basinski:
se l’idea di trascorrere un’oretta di immersione totale in una
quieta trance vi fa inorridire, lasciate perdere, in caso
contrario, abbandonatevi.
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