Diversi
anni fa, riflettendo a posteriori sulla strage di Oklahoma City,
Furio Colombo sosteneva che crimini del genere negli Stati Uniti
erano diventati possibili – e negli anni successivi sono
diventati anche più frequenti, dobbiamo aggiungere – per
l’incapacità delle agenzie governative di capire la situazione
sociale americana, anche a causa dell’abdicazione della
sociologia americana, persa attorno all’esigenza politically
correct di far parlare i dati (statistici) e non le analisi,
alla costruzione di una teoria dell’azione sociale. E commentava
come questa era la dimostrazione migliore di quanto l’ostracismo
a Wright Mills e al suo invito a praticare l’immaginazione
sociologica avesse funzionato perfettamente, fino all’oblio.
Stesso
problema potremmo sostenere si pone da sempre in Italia, quando
si sfiorano gli anni che vanno dai Sessanta almeno a
Tangentopoli compresa, quindi anche gli anni dello “stragismo”.
Troppo delicati, questi problemi, perché se ne occupino i
sociologi. Meglio che lo facciano i politici, gli storici, i
giornalisti, i moralisti (!)
Questo
libro quindi rompe un tabù, e incrina un fronte, quello dei
professionisti dell’analisi a posteriori – tutti,
indubitabilmente, politicamente corretti!
Mentre
invece, fatti così catastrofici, frutto di processi nascosti,
quindi di manovre opache e inconfessabili, che hanno effetti sul
collettivo come sull’individuale, dovrebbero incidere sulla
memoria storica quanto su quella collettiva e individuale in
maniera indelebile.
Cosa che
non sempre succede: si tende a rimuovere e a dimenticare,
secondo uno schema già in passato sperimentato e rifinito, anche
attraverso l’appropriazione del monopolio ad occuparsene.
L’intervento delle scienze sociali sulla questione, grazie agli
autori, apre nuovi spunti di analisi e di riflessione, e mostra
come l’immaginazione sociologica invece possa funzionare ancora
come grimaldello analitico.
Fra
l’altro, quelli furono anni in cui quei treni, quelli contro cui
si esercitò la pratica della strage, erano frequentati, anche
settimanalmente, da persone che questa memoria sarebbero stati
particolarmente in grado di esercitarla: lavoratori, e famiglie
di lavoratori, spesso pendolari settimanali fra il sud e il
nord, in una riedizione appena più comoda delle grandi
migrazioni interne del dopoguerra, fatte di viaggi interminabili
su sedili ancora di legno.
Cui si
aggiungevano emigrati di tipo nuovo, rispetto a quelli:
insegnanti, impiegati statali, anche magistrati. Uno strato di
emigrati “intellettuali” nuovo, più attento e consapevole,
magari, venuto dal dopo 1968, attento e sensibile alle questioni
sociali. Persone attente anche alla memoria dei fatti, recenti e
passati, che ancora sente qualche volta il brivido di aver
sfiorato quel treno, quella strage, quell’attentato: dal 1974
dell’Italicus, al 1980 della stazione di Bologna, al 1984 del
904.
Ciò che,
insieme alla loro difficoltà ad essere ascoltati è esattamente
quella memoria collettiva che fa da collante sociale e
generazionale, senza il quale rimangono solo spazi vuoti, a
maggior ragione in anni così veloci a mutare come i nostri.
Rimane la verità storica, che però nel nostro caso, e in
prospettiva per tutto il periodo che va dal 1968 circa agli anni
Novanta, rimane piuttosto opaca e vuota, appannaggio di chi, con
l’alibi dei fatti, finisce per sterilizzare e svuotare, o di
qualche grillo parlante di un tempo che – questo sì – ricorda
ancora fin troppo bene il suo mestiere.
Persone, i
vivi e i morti, che hanno diritto a sapere e a far ricordare, o
almeno a poter ragionare su quegli anni, eliminando dita fatte
per nascondersi dietro e impudiche foglie di fico.
Il volume
di Höbel e Iannicelli traccia un possibile sentiero. Magari
altri proveranno ad inoltrarvisi.
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