Quando
l’umorismo manifesta appieno la sua potenzialità di comprensione
del reale; quando la storiella satirica recupera la capacità di
scardinare il monolite del potere egemone; quando il racconto si
propone di consolidare una memoria esemplare che possa
rappresentare uno stimolo per oltrepassare gli errori della
storia.
Moni
Ovadia raccoglie, in questo suo ultimo lavoro, diverse storielle
– per la quasi totalità di foggia ebraica – nate durante il
regime sovietico e tese a smontare sottilmente, con le affilate
armi del paradosso, la brutale arroganza della tirannia
nell’URSS, l’inettitudine tracotante di un potere che ha
trasformato l’utopia della salvezza terrena in orrore
quotidiano. Storielle che suonano così, ad esempio:
Un giudice
esce da un’aula di tribunale ridendo come un pazzo.
Un collega
gli chiede: - Ma cos’hai da ridere così tanto?
- Ho
sentito appena adesso una storiella fantastica!
- Bello!
Una storiella! Raccontala!
- Scherzi?
Per quella storiella ho appena condannato uno a dieci anni di
Gulag!
Come il
folle erasmiano che scopre il mendicante sotto le vesti del re,
che svela l’attore dietro la sua maschera, il racconto
paradossale e il witz – il motto di spirito – concorrono
a svelare gli aspetti sottesi, l’essenza di un’esperienza
storica che ha vanificato, nel dolore di milioni di persone, i
sogni di uguaglianza e libertà del suo progetto politico.
È qui che
la natura comica, con il suo specifico stile cognitivo,
si presenta come portavoce dell’incongruo (Cfr. Peter L.
Berger, Homo ridens, il Mulino, Bologna 1999). Assolve
cioè completamente alla sua funzione di vivifico contrappunto
della realtà ordinaria, per comprenderla appieno anche nei suoi
interstizi nascosti, per ridimensionarne l’impatto minaccioso e
prepotente, per placare indirettamente il timore montante, ma
anche forse – freudianamente – per sublimare, appagare in modo
sostitutivo un ostile desiderio di rivalsa.
E poi,
fondamentalmente, per trovare un’arena di senso, protetta nel
suo habitat paradossale, dove attenuare, magari
ridicolizzandola, la prepotenza delle gerarchie, dove
relativizzare l’inattaccabile aura dell’autorità, del potere.
Così Moni Ovadia (che peraltro rivendica la propria radice
marxista) richiama, senza fare sconti, personaggi, istituzioni,
ambienti, situazioni specifiche dell’URSS e vi associa
l’esilarante corredo di storielle a loro dedicate, ripercorrendo
quell’impertinente quanto salvifica tradizione orale che ha in
modo latente accompagnato gli itinerari ufficiali – in parte
sospetti – della storia sovietica.
Allora, in
ossequio ad una consapevolezza ebraica della memoria collettiva
come forte radice identitaria, la narrazione diventa il
principio dell’edificazione di una memoria che possa donare alle
nuove generazioni i valori del rispetto, della libertà,
dell’impegno e del contrasto ad ogni totalitarismo. Magari
sapendo sempre cogliere il salubre contributo dell’ironia alla
convivenza pacifica e contro l’irrigidimento in ogni sterile
intransigenza. Per poter vivere il beneficio di ogni utopia.
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