The Soft Machine/Volume Two di Soft Machine
Water
Third/Fourth/Fifth/Six/Seven di Soft Machine
Sony/BMG

 

 





 

 

 


The Soft Machine/Volume Two di Soft Machine

Third/Fourth/Fifth/Six/Seven di Soft Machine

 

Preceduti dal doppio uscito nel 2005, “Out-Bloody-Rageous. An Anthology 1967 – 1973”, gli album dei Soft Machine usciti originariamente per la CBS­ “Third”, “Fourth”, “Fifth”, “Six” e “Seven” ­ escono finalmente restaurati nel suono in un’edizione rimasterizzata a 24 bit.

Tutto qui.

Una sola bonus track, l’alternate di All White, allegata a “Fifth”, e un concerto del 13 agosto 1970 alla Royal Albert Hall già pubblicato anni fa dalla Reckless con il titolo di “Live At The Proms” (poi andato fuori catalogo) che trasforma “Third” in un doppio cd, anzi lo riporta a essere un doppio album come nella versione originale in vinile. La scaletta del concerto: Facelift e Out-Bloody-Rageous (da Third) e la sequenza conclusiva del secondo album dove viene inclusa una Pigling Bland poi su Fifth. Un’esibizione che conferma­ come gli altri inediti dal vivo usciti in questi anni ­ l’abilità dei Soft Machine nel rielaborare incessantemente un repertorio costituito in fondo da pochi brani.

Tutto qui.

I booklet allegati impreziosiscono le ristampe con una ricostruzione stringata ma completa della storia della morbida macchina a cura di Mark Powell, vicenda documentata anche da un bel po’ di belle foto.

Per fortuna è tutto qui, poiché questi dischi sono una delle poche certezze della storia musicale recente e paradossalmente è un gran risultato scoprire l’acqua calda. Significa che queste registrazioni tengono nel tempo e sarebbe un interessante esercizio andare sul serio a riascoltare molti dischi sopravvalutati nelle innumerevoli top list, tipo i dischi dell’isola deserta, i più belli di tutti i tempi, i cento dischi del secolo e compagnia cantando. Questi dischi tengono nel tempo, a iniziare dal capolavoro Third, e in fondo che cosa avrebbero potuto dirci degli altri inediti? Qui si era già toccato il vertice di quel jazz progressive che venne inventato in UK. Forse potevano mostrarci i Soft Machine sotto tono e allora c’è da essere contenti che non siano saltate fuori tracce del genere, anche scampoli di mito possono essere salutari. Dicevamo di “Third”, quando i Soft Machine erano Mike Ratledge (tastiere), Hugh Hopper (basso elettrico) Robert Wyatt (batteria e canto) e il nuovo entrato, il sassofonista Elton Dean. I quattro per non litigare si divisero equamente lo spazio, una facciata a testa, a indicare i quattro punti cardinali della band: Moon In June, il free pop minimal/malinconico firmato da Robert Wyatt, Slightly All The Time, il jazz superfluido secondo Elton Dean, Facelift di Hopper e Out-Bloody-Rageous di Ratledge che si contendono la palma della trasgressione al jazz, zeppi come sono di rumorismi, iterazioni e il sostegno di fiati “ospiti”: Nick Evans (trombone), Lyn Dobson (flauto e soprano), Jimmy Hastings (flauto e clarinetto basso).

L’anno dopo arriva Fourth più concentrato sull’integrazione tra jazz ed elettronica. Zeppo di ospiti, da Marc Charig (tromba) a Alan Skidmore (ance) e roy Babbington (contrabbasso). Wyatt mostra tutto il suo valore anche nel ruolo di originale accompagnatore e Dean spadroneggia con le sonorità  spigolose del suo contralto e quelle liquide del saxello (un soprano ricurvo), un po’ la sua griffe sonora. Fifth vede l’uscita di Wyatt (che poi formerà i Matching Mole, vedi recensione in questo numero di Quaderni) e addirittura due batteristi a sostituirlo: Phil Howard e John Marshall poi rimasto anche nei dischi successivi e proveniente dai Nucleus di Ian Carr, l’altra formazione chiave di quel processo di formazione del progressive jazz inglese. L’album offre composizioni più asciutte ed esplora con più convinzione le possibilità dell’elettronica, al punto che anche Dean si propone al piano elettrico. Sublime As If in 11/4 con un gran bel assolo di contralto, anche se “la sigla” del disco è la famosa goccia glaciale che apre Drop. Nel febbraio 1973 esce Six e Dean non c’è più. Lo sostituisce un altro ex Nucleus, Karl Jenkins, fine polistrumentista (soprano, baritono, oboe e piano elettrico). Qualcosa nelle lunghe composizioni che caratterizzano questo doppio album rimanda a “Third”, l’attrazione per la scuola minimalista (soprattutto Terry Riley, per saperne di più vedi recensione in questo numero di Quaderni) e la musica concreta, ma molto è cambiato eppure sono trascorsi appena tre anni e la distanza apparirà ancora più chiara con l’uscita di Seven in cui Babbington subentra in pianta stabile a Hopper. Ancora solida la scrittura, ma troppo alti erano volati i vecchi Soft per essere eguagliati. Basti dire che Babbington non solo non sprigiona l’energia di cui era capace Hopper con il suo fuzz bass, ma rinuncia quasi del tutto anche al magnifico suono archettato donato in occasione delle sue apparizioni su “Fourth” e “Fifth”. Anche questa è una certezza, in fondo, una storia nota. Impressiona ancora però, come si è detto, la velocità del cambiamento, che si era già in realtà manifestata in occasione dell’uscita di “Third” rispetto ai primi due dischi dei Soft, anch’essi adesso ristampati in edizione rimasterizzata dalla Water. Due album di culto, pubblicati nel 1968 e nel 1969, Kevin Ayers (chitarra, basso e voce), Daevid Allen (chitarrista, poi ideatore dei Gong), Wyatt e Ratledge. Senza Allen pubblicheranno il primo disco e con Hopper al posto di Ayers daranno alla luce il “Volume Two”. Dischi di un pop diverso fatto musicando l’alfabeto inglese e altri esercizi patafisici. Chi volesse rendersi conto di come in quegli anni la rivoluzione aveva l’andatura del fulmine può ascoltare di seguito la doppia antologia citata in apertura, che ha il pregio di contenere l’esordio dei Soft Machine, un 45 giri (Feelin’ Reelin’ Squeelin’/Love Makes Sweet Music) pubblicato nel 1967 dalla Polydor. Non si scopre niente di nuovo certo, solo la genialità di una generazione. Tutto qui.

 

 

     Recensione di g.f.