Philip K. Dick
Il paradiso maoista
Fanucci, Roma, 2007
pagg. 368,
€ 16

 

 

 

 

 





 

Il paradiso maoista di Philip K. Dick

 

La produttività narrativa di Dick é forse tra le più vertiginose che la letteratura del Novecento ci abbia regalato. Se il valore e la rilevanza letteraria dei suoi scritti va sicuramente oltre i confini del genere fantascientifico in cui essi vengono collocati, è in ogni caso la sua produzione “di genere” ad alimentare quel notevole interesse intellettuale sviluppatosi intorno alla sua opera, oltre ad essere quella che ha consacrato il suo (seppur tardivo) successo commerciale e editoriale. Meno fortunate appaiono invece le sue opere mainstream, ignorate del tutto, o quasi, dagli editori (e pubblicate solo postume, sulla scia della rivalutazione di cui lo scrittore di Berkeley è stato oggetto negli ultimi vent’anni) e, comunque, mai osannate dalla critica.

Eppure le ambizioni del giovane Dick non erano circoscritte all’ambito della fantascienza, della cui scrittura provava quasi vergogna e che reputava solo un mezzo per sopravvivere. Non è una sorpresa allora che il suo primo romanzo, Gather yourselves togheter, la cui pubblicazione è avvenuta negli USA solo nel 1994 (in edizione limitata), sia un’opera non di genere.

L’opera, tradotta con il titolo quanto mai indovinato di Il paradiso Maoista ed edita da Fanucci in occasione del 25° anniversario della sua morte (è uscita nelle librerie il 2 Marzo 2007. Lo stesso giorno del 1982 Dick moriva a causa di una serie di arresti cardiaci), narra la storia di tre funzionari del governo statunitense, lasciati soli a sorvegliare gli edifici della cosiddetta “Compagnia”, uno stabilimento industriale americano in Cina, ormai abbandonato e in attesa di essere occupato dai suoi nuovi padroni. Mentre gli americani, il cui lungo periodo di dominio in terra asiatica è ormai giunto al termine, tornano nel loro continente, lasciando ai cinesi il dominio dell’accampamento (quello che viene prefigurato è un vero e proprio avvicendamento di civiltà e l’avvento di nuova era), uno scherzo del destino fa sì che vengano designati ad aspettare l’arrivo dei nuovi padroni Verne Tildon e Barbara Mahler, due personaggi il cui passato è intrecciato da una breve quanto intensa relazione, la quale ha lasciato tra i due antichi rancori e tensioni irrisolte. A loro viene affiancato Carl, un giovane ventiduenne (approssimativamente l’età di Dick all’inizio della stesura dell’opera) dall’animo gioviale e intraprendente. Entusiasta della vita e curioso del mondo che lo circonda come solo un fanciullo può essere, Carl vive la condizione di isolamento in cui i tre si ritrovano catapultati non come un dramma, ma come una provvidenziale opportunità: essa gli dà, infatti, la possibilità di esplorare liberamente i territori asiatici in cui sono stati costretti per anni senza poter mai oltrepassare i confini dei loro recinti individuali, e di godere delle bellezze e delle ricchezze che questi offrono. Barbara e Verne, al contrario di Carl, non riescono mai a trarre beneficio fino in fondo da quell’immenso quanto ambiguo paradiso, restando spesso intrappolati nelle trame dei loro ricordi e nei rancori che li legano.

Dick dà vita, così, a due personaggi complessi e problematici, accomunati da un sentimento di disillusione che se nell’ormai troppo maturo Verne è specchio di una sorta di fallimento esistenziale (è solo l’alcool la strada ai piaceri della vita), in Barbara prende la forma di un freddo cinismo di superficie, che nasconde un animo desideroso del ritorno ad una purezza e ad una spensieratezza giovanile abbandonata forse troppo presto, e che finisce per portarla a sedurre il giovane Carl: vero e proprio agnello sacrificale nella cui immolazione ritrovare il candore originario.

I dubbi, la cultura e la sensibilità del giovane Dick emergono con forza, in un tono però ancora immaturo, a tratti adolescenziale, impedendo le speculazioni di ordine esistenziale e filosofico che emergeranno in modo sicuramente più consapevole  e organico nelle sue opere successive.

Con un ritmo che a tratti sembra sfociare nel “flusso di coscienza”, Dick rischia di fare de Il paradiso maoista semplicemente un vademecum dove raccogliere in forma di romanzo le proprie considerazioni intellettuali ed esistenziali, connotandolo di un carattere ossessivamente autobiografico che si manifesta nei dialoghi troppo lunghi e spesso del tutto superflui all’economia della narrazione, o nei prolungati flashback riflessivi, che comunque assumono per il lettore un certo fascino. Tutto ciò contornato da un linguaggio ancora acerbo.

Le relazioni sessuali, presentate in modo negativo e costruite spesso in modo improbabile, assumono un valore fondamentale. La demonizzazione dell’affermazione della sessualità e dell’istinto, intesi come abbandono della purezza e spensieratezza giovanile, emerge chiara dal romanzo: la precoce (oggi ci sembrerebbe anche tardiva) scoperta del sesso da parte di Barbara, a 20 anni, dà inizio al suo tormento interiore, così come l’ossessione e la sottomissione di Verne verso le relazioni sessuali e amorose sembra essere alla base del suo fallimento; tutto ciò in contrapposizione col candore del vergine Carl, un alter ego idealizzato dell’autore, che riflette esemplarmente la gioventù troppo presto perduta da Dick, che già aveva alle spalle un matrimonio fallito. La presa di potere da parte dei cinesi, che scavalcano la ormai decaduta civiltà statunitense, riflette invece l’atmosfera postbellica in cui il romanzo si colloca: l’avvento della guerra fredda e lo scontro di civiltà che ne è derivato. E Dick non si mostra morbido né accondiscendente nei confronti di nessuna forma di potere, rappresentata da un lato dagli americani e dall’altro dai cinesi, paragonati nel romanzo ai romani e ai cristiani, con evidenti accezioni negative per la storia di ambedue queste potenze dominatrici del passato.

Nonostante le pecche stilistiche e l’immaturità, comunque, il romanzo si fa leggere fino alla fine, come sempre accade con le opere di Dick, del quale è da apprezzare l’impegno e l’intraprendenza giovanile. Del resto, la fama di Dick non deriverà certo dal mainstream, e ben altra fortuna avranno le sue opere di fantascienza: solo pochissimi anni dopo scriverà il fortunatissimo L’uomo dai giochi a premio, oggi ripubblicato come Tempo fuori luogo (o fuor di sesto).

Il paradiso Maoista resta in ogni caso un pezzo da collezione, imperdibile per gli appassionati di questo visionario e ormai “classico” rappresentante della cultura di massa.


 

     Recensione di Francesco Savastano