Gabriele Frasca
L’oscuro scrutare di Philip K. Dick
Meltemi, Roma, 2007
pagg. 264,
€ 20,50

 

 

 

 

 

 

 

 





 

L’oscuro scrutare di Philip K. Dick di Gabriele Frasca

 

Splendido libro, illuminante esplorazione dell’opera dickiana che adombra la nostra ipercontemporaneità insinuandosi nella livida atmosfera della postuma fatiscenza metropolitana, annidandosi negli anfratti raggiunti dal labirinto mediale, serpeggiando negli angoli bui dei traffici illeciti e incuneandosi nelle pieghe esistenziali di una sbiadita umanità o di una de-evoluta postumanità.

Il titolo di questo brillante saggio richiama immediatamente un romanzo generazionale a cui Dick attribuisce valore testamentale, A Scanner Darkly, scritto nel 1977, tradotto dallo stesso Frasca, ma rimanda diffusamente al grigiore dello spaesante domestico, alle vite sotterranee di foschi personaggi, che vanamente cercano di illuminare orrifiche destinazioni, e al gioco di dissolvenze di sguardi ciechi, vitrei, attoniti, inerti, sfumati l’uno nell’altro, sullo sfondo confuso e indistinto del ribollire entropico.

Questo prezioso lavoro sugli snodi fondamentali del pensiero di Dick si inabissa nelle profondità tumultuose di una produzione che ancora travolge, sollevando distopiche questioni, ancora sommerge, sospingendo verso magmatiche riflessioni, ancora rapisce, emergendo ambiguamente da una mai definitivamente compiuta complessità ermeneutica.

Frasca, nel sapiente intreccio tra analisi storica, politica e filosofica, attraversa le articolazioni significative di un immaginario capace di rispecchiare i processi reali, di riflettere le dinamiche strutturali, interpretandone le spinte, percependone le forze, registrandone gli impulsi, ma anche di proiettarsi sul futuro, su spazio-temporalità virtuali, ingenerando riverberi che puntualmente confermano le ardite previsioni.

Le “as if” views dickiane assimilano l’inconoscibilità noumenica del mondo all’imperscrutabilità di processi economici che negano l’avvenire, di circuiti commerciali oscuramente virtuosi, che ingenerano mutevoli micropoteri e che si nascondono nel vuoto legislativo coperto dalla burocratizzazione di un controllo autoritario e poliziesco. La teoria dickiana di sguardi si diffonde instaurando un regime di visualizzazione generalizzata, prefigurando il processo di tecnicizzazione della visione, marcata accentuazione dell’artificialità dell’esperienza, e costruendo una sorta di panopticon, un regno della delazione ottica, elemento centrale della contemporaneità.

Dalla patina risplendente del media landscape si scivola verso l’ottusità tragica dell’ottenebrato consenso politico, dove ogni processo di verità non potrà mai acclarare, portare alla luce, dipanare, lasciar affiorare, e si avvilupperà piuttosto nelle proprie increspature, dove poter celare i bagliori del disincanto e soffocare i corruschi disvelamenti.

Davvero fruttuosa l’incursione di Frasca, che descrive fenomeni materiali ed “emozioni culturali”, avventurandosi attraverso quelle che appaiono nei racconti e nei romanzi di Dick già le spoglie fantasmatiche di un veterocapitalismo riterritorializzante, inoltrandosi nella disforia liberista e nella compromissione tra vero e falso, sortita dalla sovreccitazione psichedelica o dalle luccicanti, ma non certo innocenti, spettralizzate immagini mediatiche.

Nell’incomprensibilità del telos dell’esistenza, nella stupidità degli umani percorsi, nel chiaroscuro delle persistenti memorie, nell’indistinguibilità del minaccioso alieno e nell’irriconoscibilità di un’alienazione inoculata nella carne, le creature dickiane appaiono sempre più prive di emozioni, sempre meno palpitanti, sempre più tendenti a spegnere i lampi psichici nel nulla contemplativo dello stupore catatonico e a scolorire le passioni nella penombra di mortiferi presagi.

La cupa consapevolezza dickiana che ogni produzione è già la sua dissoluzione e che il destino degli uomini coinciderà sempre più con il futuro stampigliato in ipercomplessi circuiti impiantati nel corpo induce al contempo all’amore per l’inanimato e all’orrore per l’indistinto: mentre nelle opache vastità di alterate soggettività si incancreniranno le disillusioni e si occulteranno le identità, come apparizioni fantasmatiche nella notte dei multiversi dickiani, imprigionati in carceri tecnologiche, scruteremo anche noi al di là delle sorvegliatissime sbarre, al di là del non più tanto inarrestabile deperimento organico, quella putrida materia che niente risparmia, quel deserto senza ombre che tutto riguadagna, contrastando il nostro tempo, che è anche il tempo della rovina e combattendo il nostro mondo che è anche il mondo dell’oscurità.

Il ricco testo di Frasca, nell’interpretare la potenza e la fascinazione degli scritti di Dick, pur cogliendone le ragioni catastrofiche, dall’incubo storico al dramma escatologico allo scacco biologico, riconosciuta l’inanità di ogni forma di resistenza, intravede tuttavia un saldo ancoraggio, che aiuterà a “restare vigili nel buio”, placando l’angoscia della finitudine, il dolore per la mancanza: il legame che vincola empaticamente gli uomini, il perseguimento dell’agape, la carità, che comincia a guizzare nelle batterie ad elio dei robot, quasi a volerne contrastare la scarsità nei cuori umani, permetterà di rivolgersi all’hic et nunc dell’oggi, rinascendo nella solidarietà e fondando un’etica che libera il mondo dell’immaginazione per farne materia del presente.


 

     Recensione di Linda De Feo