An Inconvenient Truth
è un film/documentario che parla del futuro. A chi lo vede per
la prima volta può sembrare che si parli del mondo di oggi, e di
come si stia evolvendo; ma Al Gore, che di questo film è autore
e attore unico (nei panni di sé stesso, “l’ex-futuro presidente
degli USA”), ci mostra come quest’idea sia sbagliata: la realtà
attuale si sta evolvendo così rapidamente che presente e futuro
sono oggi una cosa sola ed ogni azione che svolgiamo
quotidianamente ha effetti devastanti nel prossimo futuro.
Il riscaldamento globale non è più una curiosità scientifica con
la quale baloccarsi attraverso grafici ed esperimenti con
palloni sonda, ma è una realtà che ha cambiato e sta cambiando
la vita di milioni di persone. Chi racconta tutto questo non è
uno scienziato, ma un politico, che forse pecca un po’ di
semplicismo in alcuni punti del suo discorso ma riesce a rendere
meglio di chiunque altro il peso di una “verità sconveniente”; e
che lancia un messaggio: gli scienziati sono uniti nell’indicare
i passi da fare per salvare l’umanità dall’estinzione dovuta al
global warning, ma spetta ai politici prendere le
decisioni forti. Politici che finora negli USA, il Paese che
contribuisce per circa il 30% alle emissioni di gas serra,
sembrano aver ben altro a che pensare, tra rifinanziamenti di
missioni disastrose e scudi spaziali. Quando Philip Dick
raccontava le sue paranoiche ipotesi di complotti governativi, o
James Ballard narrava la distruzione del nostro modo in opere
come Terra bruciata o Deserto d’acqua, ai lettori
tutto ciò sembrava buona e solida fantascienza, ma nulla di più.
Film come questi (vincitore dell’Oscar 2007 come miglior
documentario) ci appaiono però qualcosa di diverso: vediamo la
fantascienza diventare realtà, come lo era diventata quel giorno
dell’11 settembre 2001 che Gore non a caso cita spesso. Lo fa
perché vuole toccare le corde degli americani, imprigionati
nella gabbia dorata costruita da politici senza scrupoli,
imbotti di chiacchiere di scrittori prezzolati come Michael
Crichton che nel suo scellerato Stato di paura ipotizzava
che la scomoda verità non fosse il riscaldamento globale, ma il
progetto segreto di eco-terroristi intenzionati a distruggere le
grandi economie mondiali.
Al Gore cita soprattutto, con voce sommessa e occhi bassi, la
distruzione di New Orleans nel 2005 provocata dall’uragano
Kathrina. Altra nota dolente, su cui si batte ripetutamente per
svegliare le coscienze di politici e cittadini americani,
illusisi spesso che i disastri ambientali colpissero soltanto le
zone più disastrate del mondo (il Sud-est asiatico, l’Africa).
Quando passano le immagini di quel disastro senza precedenti,
dell’indifferenza di Washington, e ancora di più quando Gore
mostra con la computer-grafica come tra pochi decenni la zona
del World Trade Center Memorial sarà sott’acqua, si capiscono
molte più cose di quanto avvenga attraverso i grafici. Perché i
grafici restano nel mondo ovattato delle certezze scientifiche,
i disastri sono parte del mondo reale delle certezze vissute
sulla pelle. Il cambiamento climatico e i suoi effetti, ci fa
capire Gore con i suoi modi pacati e gentili, sono già reali.
Poi viene la parte più clamorosa: la sordità delle lobby e dei
senatori al loro servizio, oltre – soprattutto – alla disonestà
di un’amministrazione americana che, lungi dal fare gli
interessi dell’America, fa solo gli interessi delle grandi
compagnie petrolifere di cui Bush jr. e compagni sono la
propaggine politica. Sull’orlo del baratro della barbarie e
dell’inciviltà, l’America dei neo-conservatori relega così nel
cassetto delle fiabe della buonanotte anche il riscaldamento
globale insieme all’evoluzionismo, alla teoria del Big Bang,
allo sviluppo sostenibile e altre scomode verità. Il film si
conclude come era iniziato, in un paesaggio bucolico che
somiglia all’Eden perduto la cui riconquista oggi è più lontana
che mai: un paesaggio da favola, non a caso, perché nel mondo
delle favole presto finiranno tutti questi paesaggi
incontaminati, ma anche perché Al Gore cerca di spronare lo
spettatore a rimboccarsi le mani perché qualcosa si può ancora
fare per salvare questo mondo, che è “l’unica nostra casa
nell’universo”.
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