|
|
Il punto non sono i geni, e non è neanche la tecnologia; il tema bioetico (non biotecnico) riguarda le relazioni umane. Riguarda, sulla lunga scia di Kant, la capacità del soggetto di immaginare l’umanità dentro di sé come il fine di ogni propria azione e di guardare all’altro uomo come portatore dello stesso carattere di autofinalità. Quando qualcuno scrive nel corpo di qualcun altro qualcosa, senza nessuna volontà esplicita di dominio come spesso nella fantapolitica, senza tuttavia presupporre un consenso, possiamo dire che non siamo di fronte a un rapporto ingegneristico del tipo uomo-macchina(cosa)? “La persona programmata non può non concepire come un dato di fatto naturale – ossia come una circostanza che casualmente limita il suo margine d’azione – quella intenzione del programmatore che lo influenza a partire da una modificazione del genoma. Attraverso la sua intenzione, il programmatore diventa co-autore dell’interazione. Ciò avviene senza che egli si presenti esplicitamente come controparte entro la sfera di azione del programmato.” “Il mondo vivente è moribondo (…) sono state la scienza e la tecnologia a condurci in questo collo di bottiglia. Ora la scienza e la tecnologia devono aiutarci a trovare il modo di superarlo e uscirne.” Quella che Wilson descrive è un’etica della conservazione, un’etica cioè che mira a trasmettere alle generazioni future la parte migliore del mondo non umano. Ma perché conservare se la ricerca sembra prefigurare la possibilità di rinnovare il perduto quando non di creare dal nuovo? All’argomento che l’uomo possa progettare e creare nuovi ecosistemi stabili “dal nulla” e quindi evitare di preoccuparsi di quelli attuali, Wilson risponde estendendo la questione alla creazione artistica. Saremmo forse legittimati a bruciare Beethoven, Goethe e i Beatles se anche ipotizzassimo di poter ricreare dei loro sostituti? Finchè la questione ruota attorno a un’idea di “natura” come produttore di beni e servizi (come Schelling rimproverava a Fichte) non si esce dai vicoli ciechi di quell’antropocentrismo radicale che ha condotto il pianeta sull’orlo della crisi. Anche in Wilson l’invito è a un ethos del genere umano che se vuole essere veramente universale deve assumere le istanze dell’ambientalismo; un ethos del tutto nuovo, che assuma la storia evolutiva come mito di fondazione… “Le grandi antropologie religiose (delle religioni monoteistiche) provengono da contesti che conoscevano l’amore, la compassione, la purezza di spirito ma non l’ecologia. Lungo la via di un’etica veramente universale c’è la possibilità di un accordo tra modelli laici e religiosi sul quel denominatore comune che è il futuro del pianeta. Un accordo e una prassi possibili, perché quel primate che ha saputo immaginare Dio e calpestare il suolo della Luna saprà, conclude Wilson, farsi custode di “questo pianeta e della magnifica vita che ospita.” Da un lato l’appello alla preservazione dell’umano identificato con la libertà, la richiesta di non smarrire definitivamente nella prassi di un agire reificante che passa per le tecnologie genetiche le chiavi di accesso al mondo della libertà nella sua duplice dimensione di affrancamento e di creatività; dall’altro il monito ad una riscoperta di ataviche pulsioni di preservazione della vita, pulsioni che, con molta più sapienza dell’antropocentrismo miope garantiscono la perpetuazione combinata (l’unica possibile) di Homo Sapiens (la specie) e di Gaia (l’ecosistema). Insomma Dio è morto (almeno dalla Gaia Scienza di Nietzsche), la vita del pianeta non è scontata, come non è scontata l’essenza dell’uomo… L’ottimismo è la cifra del nostro tempo. |
|
[1] (2) |