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Il tutto, quindi, si riduce quindi ad uno scambio continuo
di rifiuti, a prescindere dal tipo. Nel film Alien
Nation, i tenctoniani - definiti in modo dispregiativo “Slags” - vengono
accolti più o meno come fossero immigrati clandestini, e come tali vengono
messi in quarantena. Si cerca di dare loro un nome e dei documenti utilizzando
quelli di località degli Stati Uniti o di grandi personaggi e attori di
Hollywood. Ben presto, un gruppo di avvocati di gran fama, tuttavia, si attiva
per cercare di far terminare il periodo di quarantena e concedere ai “nuovi
venuti” i diritti civili e la possibilità di essere assorbiti dalla società
americana e grazie anche all'appoggio del presidente Reagan finalmente i
tenctoniani vengono “liberati”. E siamo all’ultima categoria di scarti umani, a cui il
sociologo inglese dedica gran parte del suo libro, e cioè a quella de “i
richiedenti asilo”. Costoro, oltre ad essere anch’essi rifiuti umani, sono
anche totalmente estranei al corpo sociale, ed in prospettiva non hanno alcuna
possibilità di inserirsi nella società e diventare in qualche modo produttori
e/o consumatori. E allora, ci spiega Bauman, i rifiuti che non possono
essere eliminati si cerca di contenerli, di metterli dentro un contenitore a
chiusura ermetica: fuor di metafora ciò di cui parla il sociologo inglese non è
altro che la nascita di aree in cui vengono isolati i rifugiati, aree che sono
all’apparenza nate per proteggerli, ma che in realtà sono dei veri e propri
ghetti dove rinchiudere i rifugiati e placare la coscienza della moderna
società. “I rifugiati scrive Bauman -
recano con sé il rombo lontano della guerra e il lezzo delle case sventrate e
dei villaggi dati alle fiamme; cose che non possono che rammentare ai radicati
quanto sia facile perforare o schiacciare il bozzolo della loro routine
rassicurante e familiare (rassicurante perché familiare), e quanto possa essere
illusoria la sicurezza del loro insediamento”. Ma quali sono questi ghetti di cui parla Bauman in Vite di scarto? Se guardiamo alla sola
Italia, non dobbiamo gettare lo sguardo troppo lontano. I campi nomadi presenti
nelle periferie di molte città italiane e i CPT (Centri di Permanenza
Temporanea)[6]
dislocati in Italia e che hanno la funzione di accogliere i cittadini extra
comunitari giunti irregolarmente sul territorio nazionale sono un esempio
lampante di ciò che il sociologo inglese intende per ghetti. L'ultimo affondo, però, il sociologo inglese lo riserva a
chi nella moderna società non è uno scarto, ma un produttore di reddito ed in
quanto tale anche e soprattutto un consumatore. Nel capitolo finale di Vite di scarto dedicato alla “cultura
dei rifiuti”, il sociologo analizza la civiltà moderna, una “civiltà
dell'eccesso, dell'esubero, dello scarto e dello smaltimento dei rifiuti”. Bauman scopre un nervo centrale della nostra vita, quello
relativo ai consumi che altro non sono che il soddisfacimento dei sempre più
frenetici desideri di possesso di cui che vengono sempre più rapidamente
sostituiti da altri desideri, in un vortice senza fine. Un processo che produce
inevitabilmente rifiuti: “Il ritmo vertiginoso del
cambiamento svalorizza tutto ciò che potrebbe essere desiderabile e desiderato
oggi, contrassegnandolo fin dall'inizio come lo scarto di domani, mentre il
timore di essere scartati che trasuda dall'esperienza del ritmo vorticoso del
cambiamento induce i desideri a essere più avidi, e il cambiamento stesso a
essere più rapidamente desiderato...”[7].
La convulsa frenesia del desiderio, ci avverte Bauman, è
autoreferenziale ed in quanto tale è infinita: si cerca sempre di soddisfare
nuovi bisogni. Tutto ciò genera un nuovo concetto di consumo, un concetto non
più legato a doppio filo dalla problematica del bisogno, ma semplicemente dal
desiderio di appagamento e soddisfazione. In un’epoca di flessibilizzazione dei rapporti sociali, in
cui si sono persi i vincoli di comunità e di solidarietà
tra le persone, il rischio che tutti corriamo, sembra dirci il sociologo
inglese, è quello di passare il confine e di diventare scarti, rifiuti. Di sentirci simili ad alieni, insomma. A quel punto non ci
resterebbe che prendere un’astronave e trovare un nuovo pianeta in cui
ricominciare. Proprio come i tenctoniani di Alien
Nation. Peccato che sia solo fantascienza. Questa declinazione dell’idea di viaggio ci conduce a cogliere
un altro senso del nostro tempo: non più il rischio dell’invasione del più
forte – l’alieno crudele e invincibile – ma la certezza dello sbarco dei più
deboli, degli sconfitti. Al posto delle cannoniere inglesi del secolo scorso e
delle astronavi aliene del futuro, le barcacce, i tir, le zattere del presente.
[6] Cfr. Relazione della
Commissione
De Mistura sui CPT in Italia (31 gennaio 2007) -
http://www.cestim.it/argomenti/25cpt/rapportodemistura.pdf?idArticolo=23602
[7] Zygmunt Bauman, Vite di scarto, op. cit.
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