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È Inghilterra che si sviluppò un processo di
industrializzazione che provocò cambiamenti tanto profondi in tutti gli aspetti
della vita umana da essere percepita come una rivoluzione. Da quel momento la
vita dell'uomo non fu più la stessa: furono a poco a poco trasformati o
cancellati usi e costumi radicati nel tempo e si aprirono tra i ceti sociali
nuove tensioni che avrebbero condizionato il successivo sviluppo
socio-economico. Basta pensare, tanto per fare qualche esempio, che Volta
inventò la batteria elettrica nel 1800, Ritter la batteria di accumulazione nel
1812 e Faraday il motore elettrico nel 1822. Ma tale evoluzione non si spiega,
ovviamente, solo con lo sviluppo di nuove tecnologie. Concorsero anche altri
fattori di natura più squisitamente politici e socio-ecomomici: la grande
disponibilità di materie prime (in particolare ferro e carbone); l'aumento del
capitale e del risparmio; la trasformazione tecnico-scientifica
dell'agricoltura; l'intraprendenza della borghesia agricola e commerciale;
l'aumento della popolazione e quindi la maggior disponibilità di manodopera. Frankenstein, in tal senso, è anche una perfetta metafora
di una nuova sensibilità romantica, che era diretta espressione della classe
borghese che aveva raggiunto una sua piena legittimità sulla scena della
storia. “Ma se,
in generale, il romance nasce come settore definito e autonomo con l’affermarsi
del capitalismo, a causa della necessità di distinguere il novel da esso come
diretta espressione delle nuove classi al potere, la fantascienza, pur essendo
la sua forma più recente (anche se ancora, a quei tempi, di là da venire, almeno
come genere separato), fa riferimento a settori del romance più antichi,
connessi a strutture socioculturali precedenti, collocate attorno alla
dimensione magico-soprannaturale (e che verranno poi inserite nella categoria
del romanesque insieme ad altre forme, sempre per le stesse esigenze di
distinzione del nuovo romanzo realistico borghese). Il punto
di unione – e di passaggio – fra una forma e l’altra può essere individuato nel
romanzo Frankenstein […]”[7].
Il bagaglio culturale che è alla base del romanzo è quel
processo di arificializzazione della natura e della realtà che trova nei famosi
automi di Jacques Vaucanson: un suonatore di flauto, un tamburino e un’anatra
che digeriva una perfetta sintesi. Tali macchine sono il frutto di una tecnologia che nel Settecento
non può che essere ancora quella del telaio da un lato e dell’orologio
dall’altro, ma sono già il compendio di un desiderio umano di creare una forma
artificiale sia della natura sia dell’uomo. Mario Praz ipotizza che gli esperimenti di Vaucanson non
fossero del tutto sconosciuti alla Shelley. “La
creazione artificiale d’un essere umano era stata il sogno di secoli, ma il
problema era particolarmente vivo nel Settecento, e Goethe lo espresse
nell’Homunculus nella seconda parte del Faust, che, tuttavia, si è cominciata
solo nel 1826, mentre Frankenstein fu pubblicato nel 1818. Si sono indicate
fonti nei romanzi di Godwin, in Pygmalion et Galatée di Madame de Genlis, e
naturalmente nel Paradiso perduto; Condillac può avere contribuito col suo
sensazionalismo psicologico, Locke era stato letto meticolosamente da Mrs.
Shelley durante il dicembre 1816 e il gennaio 1817” [8]. La circostanza non è del tutto esclusa e ha un suo
fondamento, visto che i tre automi vennero mostrati in tutta Europa e a Londra
nel 1742. Gli esseri artificiali di Vaucanson, così come
Frankenstein, sono il preludio a quell’innovazione tecnologica che a cavallo
fra l’800 e il 900 ha giocato un ruolo fondamentale nella riorganizzazione del
mondo industriale e del lavoro. I tratti fondamentali di questo paradigma
tecnico-organizzativo derivano, per un verso, dalle elaborazioni teoriche di
Frederick Taylor e, per l’altro, dalle
esperienze imprenditoriali concrete di Henry Ford. Dopo un’esperienza di supervisione vissuta in alcune
grandi imprese siderurgiche americane, Taylor arriva alla conclusione che il
panorama lavorativo è limitato nelle sue potenzialità perché non esiste una
sistematizzazione delle modalità e dei processi di produzione dato che la loro
la conoscenza è basata soprattutto sull’oralità. Per Taylor si tratta quindi di
trovare una one best way per ogni processo produttivo, ovvero la migliore
soluzione per ogni problema. Taylor si propone di scomporre il comportamento umano per
ricomporlo su dettami scientificamente elaborati ed imposti dall’esterno: si
osserva attentamente ogni singolo movimento dell’operaio, lo si scompone,
misura, razionalizza ed infine (coadiuvati da utensili appropriati) lo si
ricompone, dopo aver fissato un tempo teorico di esecuzione. Così come il
barone Victor Frankenstein usa parti di cadaveri per assemblare un nuovo essere
artificiale, Taylor riorganizza il lavoro in una nuova forma, più attenta alle
esigenze della nascente industria moderna. Nel 1913, l’imprenditore Henry Ford perfezionava il
taylorismo, trasformando la fabbrica in una sorta di traduzione pratica dei
principi dell’organizzazione scientifica del lavoro propugnati da Taylor nella
grande industria, con l’obiettivo primario di sfruttare le nuove tecnologie di
inizio secolo e promuovere la produzione di massa. È in questo contesto che successivamente viene applicato
l’American System of Manufactoring,
ossia la sostituzione progressiva del lavoro umano con la meccanizzazione, fino
a costituirne un sistema organico e coerentemente articolato basato sull’utilizzo
di macchine specializzate che producono pezzi tra loro identici ed
intercambiabili. Frankenstein si trasforma, diventa così un essere
artificiale. Diventa il prototipo della figura del robot, l’essere artificiale
per eccellenza. Ma è anche una figura emblematica, una metafora che segna lo
spartiacque tra un tipo di società pre-industriale ad una pienamente
industriale e, in tal senso, è anche compiutamente un’opera antesignana della
fantascienza, il genere letterario per eccellenza del Novecento, che meglio di
tutti ha raccontato e, in parte, rappresentato la fase matura del capitalismo
industriale. [7] Adolfo Fattori, Di
cose oscure e inquietanti, Ipermedium, Napoli, 1995. [8] Mario Praz, Introduzione a Mary Shelley, Frankenstein, ovvero il moderno prometeo,
op. cit.
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