I mastodontici centri commerciali che si sono prima infiltrati e
ora tendono a sostituirsi sempre più sistematicamente al
panorama sociale dell’industrialismo come non luoghi che
diventano luoghi per eccellenza, cattedrali laiche da cui promana
la dottrina dell’intera vita contemporanea, incubatrici di
consumismo e xenofobia.
Professionisti e specialisti delle vecchie e nuove professioni
nevrotici e spaesati nella nuova geografia patinata
dell’urbanizzazione distribuita della tarda modernità.
Rigurgiti di
rituali e pratiche tribali, ataviche, riattualizzate dalla nuova
condizione esistenziale e lavorativa del “popolo del millennio”
appena cominciato.
La noia
della vita quotidiana nel nuovo millennio che neanche il
consumismo riesce più a fugare, per cui non bastano più né le
droghe, né il sesso, e che si trasforma in “follia elettiva” –
come la definisce uno dei personaggi del romanzo – rivolgendosi
contro gli stranieri, le loro abitazioni, i loro negozi, in una
edizione attualizzata dell’emergere del nazismo.
Questi
alcuni degli elementi chiave dell’ultimo romanzo di Ballard, un
altro quadrante della mappa del futuro prossimo che lo scrittore
inglese va costruendo già da qualche tempo (per rimanere alle sue
esplorazioni più recenti, Super Cannes e Millennium
People).
In questo
caso, al fulcro della sua analisi è la forza cogente, di
costruzione della realtà che ha tutto ciò che ruota attorno al
marketing, alla pubblicità, alla promozione commerciale.
La
descrizione di una vera e propria mutazione antropologica
ulteriore, che segue quella dell’homo televisivus di cui
parlano alcuni studiosi apocalittici, grazie alla sostituzione di
un luogo virtuale – lo spazio definito dal telecomando e che si
stende dal divano allo schermo – con un ex non luogo
diventato reale: le arcate, i viali, gli spazi definiti dei centri
commerciali, con il loro portato di desideri, aspettative,
ambizioni – e quindi incubi, nevrosi, razzismo, violenza.
Come sempre,
Ballard ci invita ad una esplorazione duplice, fisica e mentale,
attraverso i territori definiti dai raccordi e dagli svincoli
autostradali che conducono dalla città, attraverso i sobborghi
ormai artificiali che la circondano, ai grandi centri del
consumo di massa.
Cittadine –
una volta satelliti della metropoli, oggi dependances dei
luoghi del commercio/consumo – che perdono progressivamente
qualsiasi legame con la vita associata tradizionale (centri
sportivi, teatri, circoli, scuole, cinema) per diventare meramente
luoghi dormitorio dei nuovi consumatori, soddisfatti solo quando
possono andare a comprare.
Uno dei
poli, il centro commerciale di un percorso che conduce all’altra
istituzione totale cardinale della tarda modernità: la
discarica di rifiuti.
Ancora una
volta, nella scrittura dell’autore inglese è possibile cogliere
gli echi della riflessione sociologica più acuta e lucida di
questo cambio di millennio: quella di Baudrillard, di Bauman, di
Bruckner.
E forse
qualcosa in più: lo scenario che disegna, in cui la violenza e il
rischio del totalitarismo nasce dalla (imprevedibile?) fusione di
tifo sportivo, coazione al consumo, rifiuto dello straniero, nello
spazio che unisce centri commerciali e broadcasting
televisivo in un rituale officiato da un attore pubblicitario di
mediocre valore nell’Inghilterra immaginata da Ballard qui da noi,
forse, assomiglia ad un film già visto, per ora fortunatamente
abbastanza a lieto fine.
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