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Non c’è dubbio che la Shelley si è alimentata di questa
sensibilità e la trasfonde nel suo capolavoro. Del resto è moglie di uno dei
più importanti poeti del romanticismo - Percy Shelley incarna il prototipo del
poeta ribelle ed esule - e amica di un altro come Lord Byron, nostalgico
dell'era classica. La stessa vita della scrittrice è funestata da eventi
tragici e da un’infanzia infelice che, in qualche modo, ne segnarono l’animo. La madre, Mary Wollstonecraft, era una scrittrice e
femminista militante. Il padre invece era un filosofo politico, noto per le sue
teorie rivoluzionarie. Pochi giorni dopo la nascita della Shelley, la madre
morì e il padre tramuterà il dolore e la disperazione per la perdita in rancore
nei confronti della figlia, ritenuta da lui responsabile della morte della
moglie. Della infanzia della scrittrice sappiamo solo che cresce
tra la freddezza con cui il padre la tratterà per tutta la vita e la totale
assenza di affetti: solitarie passeggiate, letture e sogni ad occhi aperti
riempiranno le sue tristi giornate. Nel 1814 conosce un giovane poeta, pupillo
del padre: Percy Bysshe Shelley. Due anni più tardi, Mary fuggirà in Svizzera
con il giovane poeta che in seguito diventerà suo marito. È sarà proprio Percy
Shelley, con la sua stravagante personalità, a influenzare intellettualmente per
primo la giovane scrittrice. Percy a soli vent'anni era già considerato uno dei
migliori poeti inglesi. Di nobile famiglia, egli fu sempre uno spirito ribelle
ad ogni forma di tirannia. A causa di un opuscolo di critica religiosa, The necessity of atheism, Percy fu
espulso dall'Università di Oxford. La caratteristica fondamentale della poesia
di Percy Shelley è l'assoluta predominanza della fantasia, della capacità di immergersi
in miti fantasiosi e fuori del mondo, in una sovrumana comunanza con le forze
segrete della natura. Caratteristica che Mary, con la sua più importante opera
letteraria, dimostrerà di aver bene appreso. Del resto nella storia del barone Victor Frankestein che,
ribellandosi alla morte della madre, studia come riportare in vita i morti,
creando quella mostruosa creatura che alla fine vedendosi respinta dal suo
creatore si vendicherà, ci sono tutti gli elementi caratteristici della
letteratura gotica. La vera chiave di volta della narrazione è nella figura
del Mostro, o meglio della “creatura”, come viene definita nel romanzo,
materializzazione vivente delle nostre paure. Il mostro ossessiona,
perseguita, rompe ogni regola. Leggere la storia della creatura costruita dal
barone Victor Frankenstein, convinto assertore del galvanismo, assemblando
pezzi di cadavere e riportata in vita mediante una potentissima scarica
elettrica significa specchiarsi in lui: corpo deforme in pezzi, sommariamente
ricucito, incapace di riconoscersi nel prossimo e di ricevere quell’amore che
disperatamente richiede. Il mostro non è semplicemente il risultato di un esperimento,
ma è una creatura umana, forse anche più del suo creatore. In ogni caso si può
affermare che la solitudine del mostro è la solitudine di Mary e forse il
successo che il romanzo ha ottenuto è dovuto proprio al fatto che la storia è
incentrata essenzialmente sull’eterna paura dell'uomo della solitudine. La
solitudine di cui la creatura è costretta a nutrirsi è quella di un essere che
sa di essere condannato a restare escluso dalla società: è un diverso, un
emarginato che si allontana anche dalla sua naturale indole alla bontà. Si
ritrova emarginato anche dal suo stesso creatore, tanto da trasformare la sua
iniziale energia positiva nella violenza più cruda: l’omicidio. Il mostro non è la creatura ottusa e brutale che la
tradizione cinematografica da Karloff in poi ci ha rappresentato, ma un essere
sensibile che soffre dell’inappellabile condanna che l'umanità intera,
influenzata unicamente dal suo aspetto, ha pronunciato contro di lui. Al suo
creatore, al responsabile della sua infelicità, il mostro rivolge un ultimo e
disperato appello ma, scacciato anche da questi, seminerà intorno a lui la
morte e la distruzione. Lo Scienziato: il fuoco di Prometeo Ha ragione Jean-Jacques Lecercle quando sostiene che
Frankenstein è un mito moderno perché è innanzitutto un mito della creazione,
una creazione però che è contraddittoria, che si pone come tensione tra natura
e società[5].
Molti hanno infatti hanno riletto nella storia di
Frankenstein la vicenda biblica di Adamo ed Eva, dove il mostro è Adamo
scacciato dal paradiso e lo scienziato è Dio. Ma non c’è dubbio che il mito
fondatore del romanzo è quello di Prometeo, cui lo stesso titolo fa
riferimento. La
Shelley associa il dottor Victor Frankenstein a Prometeo, il Titano che, nella
mitologia greca, prese le parti dell’umanità contro gli dei, dai quali rubò il
fuoco con lo scopo di consegnarlo ai mortali. Prometeo consegna agli uomini il libero pensiero, la ribellione all'autorità costituita, la
scienza contrapposta alla rivelazione.
Non a caso all’inizio dell’opera è stata posta dall’autrice una citazione
tratta dal Paradise Lost di Milton, grazie ai quali Frankenstein è
paragonato a Dio e la creatura ad Adamo. In questo senso la creatura rappresenta
un uomo nuovo, un uomo che attraverso la scienza e la tecnica si ribella alla
visione religiosa del mondo e della natura. “Questo
romanzo, infatti, viene scritto in un periodo in cui il dibattito scientifico è
particolarmente acceso. Già alla fine del diciottesimo secolo, sulla spinta
dell'esplorazione del Pacifico, fra gli scienziati si accende il dibattito
sull'evoluzione. Erasmus Darwin, nonno del più famoso Charles, figura eclettica
a cui è attribuita l'invenzione di una macchina parlante, svolge esperimenti
per infondere vita nella materia inorganica. Studioso profondamente attento ai
processi dell'evoluzione, sostiene che l'età della Terra è maggiore rispetto a
quella stabilita dalla Chiesa. In questo periodo, inoltre, parallelamente al
dibattito sull'evoluzione, si verifica la Rivoluzione industriale. […].
L'evidenziarsi del progresso scientifico e tecnologico e lo scoppio della
Rivoluzione francese che ha sostituito l'ordine con il caos informe,
costringono la gente a scendere a patti con una nuova visione del mondo e del
futuro”[6]. Una visione che troverà il suo apice in quella Rivoluzione
Industriale generata da quella classe borghese destinata a dominare per tutto
l’Ottocento e oltre. La tesi che qui vogliamo sostenere è che il Frankenstein della Shelley nasce non per caso, ma come sintesi di una serie di riflessioni intorno a quella rivoluzione scientifica iniziata nel 1600 e come espressione della rivoluzione industriale che muoveva i suoi primi passi proprio in concomitanza con la pubblicazione del romanzo. Si afferma tra la fine del 700 e l’inizio dell’800, grazie a Darwin e a Spencer, un paradigma che vede le scienze naturali prevalere su concezioni del mondo legate al soprannaturale e a visioni teologiche. L’enorme quantità di scoperte ed invenzioni che si accumulano consentono proprio alla Gran Bretagna di assumere un ruolo di primo piano nello scenario socio-economico-politico del mondo.
[5]
Jean-Jacques Lecercle, Frankenstein mito e filosofia, IpermediumLibri, Napoli 2002 (1998). [6]
Clara Parisi, Frankenstein
tra Mito e Scienza, in “Future Shock n. 18”, Anno IX, Bari 1996.
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