Troppo avanti nel tempo, così
immaginiamo in genere gli extraterrestri o quelli per antonomasia,
i marziani e non importa se sono animati da buone intenzioni
oppure ostili per natura: noi comunque non riusciamo a capirli.
Sin dal titolo, quindi, Sessa centra il bersaglio nel raccontare
la straordinaria vicenda umana e artistica di Eric Dolphy,
musicista troppo avanti rispetto al suo tempo.
Un talento sconfinato,
riconosciuto solo da pochi mentre era in vita. Non era facile,
bisogna ammetterlo, la critica musicale ottusamente non ci capì
molto, ma bisognava essere dei geni per comprendere Dolphy e
infatti videro bene solo dei titani come John Coltrane o Charles
Mingus. Tutto in Dolphy era alieno, dalla capacità di essere
contemporaneamente immerso nella tradizione e in prima fila nei
progetti musicali che disintegrarono il passato (uno su tutti: Free
Jazz di Ornette Coleman), al polistrumentismo (sassofono
contralto, clarinetto basso, flauto) allora decisamente inusuale.
In anticipo sui tempi anche per l’ampio spettro dei suoi
interessi, dalla musica accademica contemporanea e classica a
quella indiana e dei pigmei africani, dal canto degli uccelli al
suono delle onde.
Non solo, Dolphy condivideva con
i marziani il dono della riconoscibilità immediata. ET lo
scorgeremmo anche in uno stadio pieno come un uovo e Dolphy lo si
riconosce dopo un paio di battute, fosse solo per quel suo saltare
più veloce della luce dalle note più basse alle più
acute. Solo oggi lo si comprende meglio e Sessa ne documenta il
crescente interesse, gli omaggi e le riprese del repertorio. Lo
stesso libro origina da un intervento dell’autore al convegno Tributo
a Eric Dolphy, tenutosi a S.Vito al Tagliamento il 15 maggio
2004.
A tal proposito, si deve
aggiungere un disco successivo alla stesura del libro, Out To
Lunch, rilettura integrale del capolavoro di Dolphy ad opera
della New jazz Orchestra di Otomo Yoshihide, chitarrista, turnablist
e smaliziato sperimentatore. Insomma, ancora oggi il californiano
si ritrova tra musicisti di confine. Un’attualità che
oltrepassa, però, la citazione diretta, essendo percepibile più
in generale nella sensibilità contemporanea. Scrive Sessa:
“Dolphy conservava nel proprio patrimonio espressivo ogni
esperienza passata, creando un affascinante e complesso reticolo
di connessioni con il passato”.
Difficile non riconoscere in ciò
il medesimo atteggiamento che oggi agita nel modo più sano,
quando ci si riesce, fruizioni, relazioni e creazioni di questa
tarda modernità. Un visionario, dunque, nato a Los Angeles nel
1928, morto a Parigi nel 1964 per un diabete non diagnosticato,
arrivato a New York nel 1960 con alle spalle, di significativo, la
sola militanza nel gruppo del batterista Chico Hamilton, capace in
soli quattro anni di lasciare un segno indelebile (e un grande
vuoto), seminando anche la nascente scena radicale europea.
Molto ben documentato, Sessa ne
analizza scrupolosamente il repertorio, esamina la struttura delle
singole composizioni, segue l’evoluzione di un brano nelle
differenti versioni prodotte nel tempo, osserva e riflette
sull’impaginazione degli album, individua corrispondenze,
simmetrie, rimandi e legami nascosti nelle scelte operate da
Dolphy, prende in esame separatamente le registrazioni in studio,
quelle live e le collaborazioni con particolare attenzione a
quelle con Mingus e Coltrane. Dedica capitoli a parte per gli
album postumi e per le versioni di God Bless The Child di
Billie Holiday.
Un po’
ovunque lungo il racconto, il rammarico di Sessa, pienamente
condivisibile, per un progetto complessivo perseguito da Dolphy
che la morte improvvisa ha reso per sempre imperscrutabile, solo
vagamente intuibile. Un lavoro denso di acute osservazioni, ad
esempio quella relativa al comune sentire di Dolphy con Thelonious
Monk (con cui non riuscì mai a suonare) e di entrambi con Art
Tatum, ma anche un libro appassionato, come deve essere
l’omaggio a un uomo straordinario.
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