| |
Della
seconda condizione, ci occuperemo oltre. Quanto alla prima, vale forse la pena
di ricordare come essa abbia aleggiato su certo cinema di fantascienza presago
della Realtà Virtuale. Ben prima che il modesto Strange Days (1995) di Kathryn
Bigelow introducesse la droga delle droghe – lo squid, un dispositivo digitale
in grado di far rivivere le esperienze altrui come se fossero proprie – Douglas
Trumbull, in Brainstorm (1983) aveva immaginato un apparecchio in grado di
registrare tutta la gamma delle esperienze sensoriali nonché quelle interiori:
pensieri, ricordi, sogni. In Brainstorm sono prefigurati gli usi pedagogici,
militari e persino turistici della Realtà Virtuale, ma soprattutto viene
impressa su nastro l’esperienza iniziatica per eccellenza: la morte. Colta da
un attacco cardiaco, l’ideatrice dell’arcano apparecchio registra le fasi del
proprio trapasso e lascia il nastro magnetico come eredità al suo amico e
collaboratore. Questi vive tramite l’apparecchio qualcosa di molto simile a una
near-death experience, o a un ciclo mistico di morte e rinascita: un turbinio
di visioni infernali cui fa seguito un’ascesa vertiginosa fino all’approdo alla
pura luce, verso cui veleggiano intelligenze angeliche simili a bianche
farfalle.
L’essenza
della via chimica all’illuminazione, come poi di quelle tecnologiche, è già
inscritta nella nascita del termine «psichedelia», di cui la corrispondenza tra
Huxley e Osmond serba una traccia spassosa. Per battezzare le qualità
visionarie delle droghe psicoattive, che sembravano rivelare zone inesplorate
della coscienza, i due si cimentarono in un agone poetico, rimbeccandosi l’un
l’altro con distici definitori. Huxley, Liddell Scott alla mano, tentennava. Se
queste droghe rendono manifesta la coscienza, perché non chiamarle psicofani?
Oppure si potrebbe battezzarle droghe faneropsichiche... No, il termine più
esatto è fanerotimi, rivelatori del thumos, dell’anima: To make this trivial world
sublime, Take half a gram of
phanerothyme.
Ma
Osmond ebbe la meglio, e si aggiudicò il certamen: To fathom hell or soar
angelic, Just take a pinch of
psychedelic.
Con
un “pizzico” di psichedelico è dato inabissarsi nelle gore infernali e librarsi
nelle sfere angeliche: dove è inteso che le une e le altre non sono che
“regioni” della coscienza che chiunque può “esplorare” in un trip mezzo
mistico, mezzo turistico. Il distico racchiude l’essenza del misticismo
sperimentale: un esasperato psicologismo nutrito da un immaginario religioso
secolarizzato a tal punto da non rappresentare che “stati di coscienza”. Gli
dèi e gli eroi, gli spiriti guida e le intelligenze angeliche, le regioni
celesti e le infernali, tutto ciò è ben vivo: ma solo nel teatro d’ombre della
mente. Ne sortì un’acidula mescolanza di cinismo e devozione che si riflette
nello stile di Huxley, sublime e triviale a un tempo. Huxley sposa in una
sintesi goffa ma irripetibile l’unificazione dall’alto e quella dal basso delle
esperienze mistiche, e cioè la “filosofia perenne” e il riduzionismo
psicologico, anche se nelle Porte della percezione è quest’ultimo a prevalere.
Il suo linguaggio trascorre dalla solennità paludata dei perennialisti come
Guénon, Schuon o Coomaraswamy alla sveltezza asettica della divulgazione
scientifica. Ma quel che c’è di più sconcertante sono le deduzioni che trae
dalla sua esperienza con la mescalina:
La
Visione Beatifica, Sat Chit Ananda, Essere-Consapevolezza-Beatitudine; compresi
per la prima volta, non sul piano verbale, non per accenni appena abbozzati o a
distanza, ma precisamente e completamente, ciò che queste sillabe prodigiose
implicano.[6]
Huxley
vede, nella fattispecie, un vaso con tre fiori, e la chiama Visione Beatifica;
e non per usare una bella metafora, come si potrebbe dirlo dell’apparizione di
una donna incantevole, ma con la pretesa che questo sia vero precisely and
completely. Vien da chiedersi come avesse potuto, anni prima, scrivere un
trattato di “filosofia perenne” e includervi il misticismo cristiano se
ignorava che la Visio Beatifica si riferisce alla contemplazione diretta di
Dio, di là dal mondo naturale. Esiste dunque, per Huxley, un’esperienza mistica
in genere, uguale in tutte le tradizioni, cui si perviene con mezzi diversi.
Tenace illusione, questa, che si dissolve non appena ci si addentra un poco
nello studio delle diverse vie spirituali, e su cui Louis Bouyer ha scritto
parole definitive[7].
A onor del vero, Huxley non manca di fare distinzioni: non ne fa a sufficienza, però, e quelle che fa sono state prima ignorate da molti ricercatori psichedelici suoi contemporanei, e poi allegramente rimosse dalla generazione successiva. Huxley avverte, per esempio, che l’effetto di non importa quale droga non si può equiparare all’illuminazione di chi vive una vita di meditazione; mette persino in guardia contro i “surrogati chimici della religione”[8], ma ormai il sasso è gettato.
| |