Persi e ritrovati: Ian Carr, 
The Nucleus e un foglietto ingiallito*

 

di Claudio Bonomi



Londra, estate 1971 o 1972. Il flyer promozionale ritrovato casualmente da lettore di Record Collector (pagina 87, Christmas Edition, n. 1331) in una busta di un vecchio disco di Charlie Parker non menziona l’anno esatto di pubblicazione, ma quello che conta è leggere la parata di stelle che un appassionato di jazz poteva incontrare bazzicando in quegli anni i club della capitale britannica.

Al Jazz Centre ci sono in cartellone Bob Downes Open Music, Mike Osborne Group, Ray Russell Quintet e lo Spontaneous Music Ensemble di John Stevens. Girato l’angolo, si fa per dire, all’Albion dietro l’Albert Hall, sono in concerto: Iskra 1903, Chris McGregor, Frank Perry ed Evan Parker. Al Phoenix, in Cavendish Square, fanno capolino Harry Miller e i suoi Isipingo, Harold Beckett Band, Graham Collier Music, il quartetto di Stan Tracey, Dick Heckstall-Smith con il Barbara Thompson Quintet e la Brotherhood of Breath. Non molto lontano, al Country Club in Belsize Park, l’appuntamento serale è con il gruppo di Alan Jackson, Johnny Dyani e la sua Unit, i Symbiosis e la John Taylor Band. In Portland Place, negli spazi del British Council, il calendario estivo è invece occupato dai Nucleus in coppia con il Don Rendell Quintet.

Sì ci sono anche loro, i Nucleus di Ian Carr, in questa costellazione di artisti che hanno, chi più chi meno, scritto pagine gloriose di jazz contemporaneo, sfondato muri e “aperto” orecchie.

Questo foglio ormai ingiallito dal tempo rende in un certo senso giustizia a un collettivo che non ha mai goduto di buona stampa. Anche tra i cultori del genere i Nucleus sono sempre stati visti come un mondo a parte e non come la band che forse proprio per aver rappresentato la prima sintesi di talenti e idiomi diversi (jazz e rock) poteva benissimo ambire a diventare il simbolo naturale dell’intero movimento noto come British Jazz.

Fondati nell’ottobre del 1969 da Carr, trombettista autodidatta di origine scozzese con una solida reputazione di post-bopper nel Rendell-Carr Quintet, i Nucleus sono, almeno agli inizi, una cooperativa di musicisti. Non c’è un vero bandleader. Ed eccetto Carr, gli altri membri – Brian Smith, Karl Jenkins, Jeff Clyne, Chris Spedding e John Marshall – pur vantando alcuni di loro già un discreto curriculum alle spalle, sono dei perfetti sconosciuti.

I Nucleus debuttano discograficamente nel gennaio 1970 con Elastic Rock, ma subito sono guardati come dei marziani: la loro proto-fusion disorienta e spiazza l’ascoltatore. È qualcosa di ancora non sentito. Trame dilatate, temi accattivanti aperti alle fughe in avanti di ottimi solisti, abbondanza di materia modale e, soprattutto, il riff di chitarra elettrica che non ti aspetti e il ritmo battuto da una sezione che avrebbe benissimo potuto fare la sua figura in un album dei Pink Floyd.

Tutto ciò inquieta. I Nucleus sono una delle prime band a miscelare organicamente due linguaggi, jazz e rock, che allora sembravano impenetrabili l’uno all’altro. Il gruppo si forma e inizia a suonare regolarmente, e a produrre questo mix unico ben prima dell’uscita sul mercato inglese di In a Silent Way di Miles Davis, e i membri della band ascolteranno Bitches Brew solo nell’estate del 1970 nel corso della trasferta oltreoceano al Newport Festival.

Lo stesso Carr ricorda in un intervista realizzata nel 2000 dal giornalista Alyn Shipton: “Nel 1969, l’unica altra band simile alla nostra erano i Lifetime di Tony Williams che schieravano nostri amici e colleghi inglesi come John McLaughlin e Jack Bruce…”. Ma, aggiunge, il nostro approccio era comunque differente. Un approccio pluralistico, quello di Carr, che mischia blues (l’ispirazione viene soprattutto dall’album Blues Now di Howlin’ Wolf), ritmi afro, imparati dal percussionista ghanese Guy Warren, membro ospite delle ultime incisioni del quintetto con Don Rendell, e musica indiana (vedi le collaborazioni con il chitarrista originario di Goa, Amancio D’Silva).

Un mosaico che ingloba anche idee e spunti dei diversi membri della band. Dall’oboe di Jenkins, novità assoluta per i tempi, alla chitarra “distorta” di Spedding fino al drumming sincopato di Marshall, che non fa mistero di essersi ispirato al groove di Revolver e Sgt Pepper dei Beatles.

Quello che i Nucleus vogliono infondere nella loro musica è soprattutto l’immediatezza, la vitalità e la freschezza del rock. Non si tratta solo di elettrificare degli strumenti, ma di svecchiare il jazz da schemi triti e ritriti, dall’overdose di virtuosismi e da una certa patina di cerebralità.

Non è un caso che, nel 1974, Carr arrivi a dichiarare che è merito della metrica e dei tempi del rock se il jazz si è liberato dalla noia. Però la svolta elettrica dei Nucleus, a differenza di quella di Davis, non fa notizia. Non interessa ai jazzofili dal pelo duro e tantomeno agli appassionati di rock, molto più attratti da quello che succede sul fronte opposto della barricata musicale, quello dei gruppi che partendo dalla psichedelia o dal pop si stanno avvicinando a grandi passi al jazz, assorbendone strutture e stili. Un modello per tutti, i Soft Machine.

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