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E sono proprio questi i temi portanti della visione
artaudiana della spiritualità. Un assalto selvaggio (e lucidissimo) a qualsiasi
credo, nel desiderio (totale) di ripensarla in blocco, la spiritualità, e gli
saranno necessari, nel tempo, il pejote, Lewis Carrol, la catastrofe dell’io,
il “bardo-poeta” che si sostituisce a Dio, l’intero annichilimento
dell’universo e la percezione di un divenire (caro a Deleuze, Derrida). Tutto
per mirare alla Nouvelle révélation de l'Être:
“i problemi intorno ai quali ruota il mio testo e le nozioni che cerca di
evocare sono tutto ciò che è contenuto nelle parole: Inconscio, Infinito,
Eterno”. Artaud è grande rinascita del pensiero sacro[3].
È grande volontà di una ricerca delirante e pienissima, è ansiosissima e
tragica visione della purezza. La sua scrittura genesiaca è continua
riflessione sull’incarnazione di Cristo, il suo odio (odio che lo porterà a
scrivere capitoli violentissimi come “Io sputo sul cristo innato” oppure
“Essere cristo non significa essere Cristo”) è il desiderio di definire la
propria matrice d’esistenza sacra a principiare dal proprio corpo. Il corpo…
quella dimensione di corpo che nel tempo sarà dentro le pieghe composite di
artisti dell’avanguardia che uniscono alle fatali pratiche della
contemporaneità il pensiero carnale di Artaud come grandiosa (ed attualissima)
matrice di riferimento: a cominciare dal Living Theatre e poi le performance di
Mauro dal Fior e Laura Facci, il teatro tra body art e sperimentazione
video della Societas Raffaello Sanzio, i video militanti di Giacomo Verde, i
video di Kazou Ohno e ancora Lydia Lunch, Psychic TV, gli Ultrash, La fura del
Baus e tantissimi altri sperimentatori che gravitano nell’ambito della
comunicazione video, della net art e della creatività visiva più
avanzata che in diverse occasioni hanno lavorato e lavorano (attraverso opere, citazioni,
riferimenti, scritture, rimandi) nel segno di un autore potente e solitario di
nome Antonin Artaud. Il maestro del Novecento che ha saputo leggere nel
divenire dell’esistenza e nel rifiuto del divino (come attento ripensamento) le
anticipazioni prospettiche di tanta sperimentazione che oggi più che mai
ritroviamo nei paesaggi compositi della sperimentazione più avanzata. Artaud
(come Craig, nella lettura di Abruzzese) aveva già colto le grandi possibilità
del Novecento: “Buona parte del progetto di Artaud si inseriva nel clima di
cosmogonie tecnologiche allora correnti nelle culture diffuse dei mercati
internazionali dell’immaginario collettivo, nelle diverse forme della sua
inclinazione religiosa e sacrale”[4].
Dentro queste “diverse forme della sua inclinazione” c’è la possibilità
d’essere Dio, o meglio, durante la sua reclusione manicomiale egli “afferma di
essere non Dio ma un uomo di cui si è fatto un capro espiatorio per trarne Dio.
Di conseguenza ha il diritto di presentarsi come questo corpo unico/ da cui
tutto/ anche dio, fu estratto”[5]. Artaud corpo sacrificale, Artaud come piega ulteriore del sacro. Artaud o del furor anarchico come rinascita. Un invito, infine, rileggere ancora (sempre di più)
Antonin Artaud, ricominciando, magari, dallo struggente e profondo profilo che
ne fa André Breton per ricordarlo nella commemorazione funebre: “Era da poco
che Antonin Artaud si era unito a noi, ma nessuno più spontaneamente di lui
aveva messo al servizio della causa surrealista tutti i propri mezzi, e questi
mezzi erano grandi (…). Forse era in conflitto con la vita assai più di tutti
noi. Molto bello, come era allora, quando si spostava, portava con sé un
paesaggio da romanzo nero, tutto trafitto da lampi. Era posseduto da una specie
di furore che non risparmiava, per così dire, nessuna delle istituzioni umane,
ma che poteva talora risolversi in una risata in cui passava tutta la sfida
della giovinezza”. Rifiuto come marcata esaltazione della spiritualità. E
quindi furore, ateismo, bellezza, lampi, dolore, solitudine, risate,
eternizzazione della giovinezza… cardini che vogliamo sempre ritrovare negli
slanci creativi (e perché no anche teorici) del nostro tempo presente e che
vogliamo ritrovare nello straziante destino di chi ha voluto ripensare il
sacro.
[3] Vasta la bibliografia su Artaud e la sua opera
(nonostante la grande attenzione verso il poeta marsigliese, i lavori
artaudiani sono tuttora parzialmente tradotti in italiano, rispetto ai XXVI
tomi delle sue Œuvres complètes, edite
da Gallimard). Per quanto riguarda le sue attenzioni verso il sacro, tutta la
sua vasta produzione ne è segnata, attraversata. Nello specifico del nostro
discorso rimandiamo almeno a quei testi scritti in gran parte durante gli
ultimi suoi anni di vita: cfr. Antonin Artaud, La vera storia di Gesù Cristo,
a cura di R. D’Este, Nautilus, 1992; Id, Per farla finita con il giudizio di
Dio, a cura di M. Dotti, Edizioni Nuovi Equilibri, 2000; Id., Io sono
Gesù Cristo. Scritti eretici e blasfemi, a cura di P. Di Palma, Edizioni
Nuovi Equilibri, 2003; Id, Lettere del grande Monarca, a cura di P. Di
Palma, Edizioni L’Obliquo, 2004. Ma si veda anche per la sua idea di misticismo
tribale, almeno Id., Al paese dei Tarahumara e altri scritti, a cura di
H. J.Maxwell e C. Rugafiori, Adelphi, 1966.
[4] A. Abruzzese, Lo splendore della TV. Origine e
destino del linguaggio audiovisivo, Costa & Nolan, 1995, p. 138.
[5] C. Dumoulié, Antonin Artaud, Costa &
Nolan, 1998, p. 137.
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