Il sacro e il suo doppio, Antonin Artaud di Alfonso Amendola

 


E sono proprio questi i temi portanti della visione artaudiana della spiritualità. Un assalto selvaggio (e lucidissimo) a qualsiasi credo, nel desiderio (totale) di ripensarla in blocco, la spiritualità, e gli saranno necessari, nel tempo, il pejote, Lewis Carrol, la catastrofe dell’io, il “bardo-poeta” che si sostituisce a Dio, l’intero annichilimento dell’universo e la percezione di un divenire (caro a Deleuze, Derrida). Tutto per mirare alla Nouvelle révélation de l'Être: “i problemi intorno ai quali ruota il mio testo e le nozioni che cerca di evocare sono tutto ciò che è contenuto nelle parole: Inconscio, Infinito, Eterno”.

Artaud è grande rinascita del pensiero sacro[3]. È grande volontà di una ricerca delirante e pienissima, è ansiosissima e tragica visione della purezza. La sua scrittura genesiaca è continua riflessione sull’incarnazione di Cristo, il suo odio (odio che lo porterà a scrivere capitoli violentissimi come “Io sputo sul cristo innato” oppure “Essere cristo non significa essere Cristo”) è il desiderio di definire la propria matrice d’esistenza sacra a principiare dal proprio corpo. Il corpo… quella dimensione di corpo che nel tempo sarà dentro le pieghe composite di artisti dell’avanguardia che uniscono alle fatali pratiche della contemporaneità il pensiero carnale di Artaud come grandiosa (ed attualissima) matrice di riferimento: a cominciare dal Living Theatre e poi le performance di Mauro dal Fior e Laura Facci, il teatro tra body art e sperimentazione video della Societas Raffaello Sanzio, i video militanti di Giacomo Verde, i video di Kazou Ohno e ancora Lydia Lunch, Psychic TV, gli Ultrash, La fura del Baus e tantissimi altri sperimentatori che gravitano nell’ambito della comunicazione video, della net art e della creatività visiva più avanzata che in diverse occasioni hanno lavorato e lavorano (attraverso opere, citazioni, riferimenti, scritture, rimandi) nel segno di un autore potente e solitario di nome Antonin Artaud.

Il maestro del Novecento che ha saputo leggere nel divenire dell’esistenza e nel rifiuto del divino (come attento ripensamento) le anticipazioni prospettiche di tanta sperimentazione che oggi più che mai ritroviamo nei paesaggi compositi della sperimentazione più avanzata. Artaud (come Craig, nella lettura di Abruzzese) aveva già colto le grandi possibilità del Novecento: “Buona parte del progetto di Artaud si inseriva nel clima di cosmogonie tecnologiche allora correnti nelle culture diffuse dei mercati internazionali dell’immaginario collettivo, nelle diverse forme della sua inclinazione religiosa e sacrale”[4]. Dentro queste “diverse forme della sua inclinazione” c’è la possibilità d’essere Dio, o meglio, durante la sua reclusione manicomiale egli “afferma di essere non Dio ma un uomo di cui si è fatto un capro espiatorio per trarne Dio. Di conseguenza ha il diritto di presentarsi come questo corpo unico/ da cui tutto/ anche dio, fu estratto[5].

Artaud corpo sacrificale,

Artaud come piega ulteriore del sacro.

Artaud o del furor anarchico come rinascita.

Un invito, infine, rileggere ancora (sempre di più) Antonin Artaud, ricominciando, magari, dallo struggente e profondo profilo che ne fa André Breton per ricordarlo nella commemorazione funebre: “Era da poco che Antonin Artaud si era unito a noi, ma nessuno più spontaneamente di lui aveva messo al servizio della causa surrealista tutti i propri mezzi, e questi mezzi erano grandi (…). Forse era in conflitto con la vita assai più di tutti noi. Molto bello, come era allora, quando si spostava, portava con sé un paesaggio da romanzo nero, tutto trafitto da lampi. Era posseduto da una specie di furore che non risparmiava, per così dire, nessuna delle istituzioni umane, ma che poteva talora risolversi in una risata in cui passava tutta la sfida della giovinezza”.

Rifiuto come marcata esaltazione della spiritualità. E quindi furore, ateismo, bellezza, lampi, dolore, solitudine, risate, eternizzazione della giovinezza… cardini che vogliamo sempre ritrovare negli slanci creativi (e perché no anche teorici) del nostro tempo presente e che vogliamo ritrovare nello straziante destino di chi ha voluto ripensare il sacro.

 

 


 

[3] Vasta la bibliografia su Artaud e la sua opera (nonostante la grande attenzione verso il poeta marsigliese, i lavori artaudiani sono tuttora parzialmente tradotti in italiano, rispetto ai XXVI tomi delle sue Œuvres complètes, edite da Gallimard). Per quanto riguarda le sue attenzioni verso il sacro, tutta la sua vasta produzione ne è segnata, attraversata. Nello specifico del nostro discorso rimandiamo almeno a quei testi scritti in gran parte durante gli ultimi suoi anni di vita: cfr. Antonin Artaud, La vera storia di Gesù Cristo, a cura di R. D’Este, Nautilus, 1992; Id, Per farla finita con il giudizio di Dio, a cura di M. Dotti, Edizioni Nuovi Equilibri, 2000; Id., Io sono Gesù Cristo. Scritti eretici e blasfemi, a cura di P. Di Palma, Edizioni Nuovi Equilibri, 2003; Id, Lettere del grande Monarca, a cura di P. Di Palma, Edizioni L’Obliquo, 2004. Ma si veda anche per la sua idea di misticismo tribale, almeno Id., Al paese dei Tarahumara e altri scritti, a cura di H. J.Maxwell e C. Rugafiori, Adelphi, 1966.

[4] A. Abruzzese, Lo splendore della TV. Origine e destino del linguaggio audiovisivo, Costa & Nolan, 1995, p. 138.

[5] C. Dumoulié, Antonin Artaud, Costa & Nolan, 1998, p. 137.

 

    [1] (2)